La conferenza aveva lasciato Henry Stone scettico e perplesso, era una di quelle cose che apparivano troppo belle per poterle credere. Presto, preso dalle mille cose di tutti i giorni, aveva smesso di pensarci, tranne quando gli capitava di leggere qualche notizia su Jason Vanderberg sui giornali. Almeno la sua idea per convertire in energia qualsiasi genere di materiali sembrava funzionare davvero: con i finanziamenti raccolti aveva messo in piedi un'industria che nel giro di due anni era diventata un impero: in un sol colpo aveva dato scacco matto alle aziende petrolifere, a quelle elettriche, alle centrali nucleari e alle ditte per lo smaltimento dei rifiuti, ma tutto questo non aveva minimamente preparato Henry Stone alla sorpresa che si era trovato davanti sei mesi prima sotto forma di una busta commerciale nella cassetta delle lettere: Jason Vanderberg lo ingaggiava come direttore dei lavori del Progetto Zeus, offrendogli uno stipendio che era qualcosa di più del triplo di quanto Stone percepiva fin allora. Non aveva mai incontrato faccia a faccia l'ex astronauta: questi doveva averlo scelto semplicemente in base alla lettura di un curriculum. Di sicuro, Vanderberg era uno che pensava in grande: la macchina che doveva concentrare un'enorme quantità di energia in uno spazio piccolissimo in modo da “forare” il tessuto spaziale, doveva essere circondata da quanta più massa possibile per evitare al massimo la dispersione, ed allora perché non una grotta artificiale sotto la catena dell'Himalaya? Lavorando sul versante tibetano – cinese della catena montuosa più alta del mondo, poi, c'era anche il vantaggio dei costi irrisori della manodopera, anche se questo significava scaraventarsi all'altro capo del pianeta, in un ambiente gelido e ostile, in mezzo a gente che era difficile comprendere, e non solo per le barriere linguistiche.  

Quello era il gran giorno, “lo Zeus” stava per essere attivato, la folgore divina destinata a squarciare il tessuto dello spazio. Henry Stone, però non avvertiva nessuna sensazione di trionfo, si sentiva come se stesse per andare a posare la testa sul ceppo del boia, una sensazione di angoscia e di imminente pericolo che l'incontro con il lama Panchan Tenzin poteva spiegare solo in parte. L'ambiente era, ovviamente, del tutto privo di qualunque concessione all'estetica, una nuda galleria dalle pareti lisce e regolari scavata nella nuda roccia con strumenti che l'avevano penetrata come se fosse fatta di budino. In un certo senso era logico che quel tunnel, che era già un capolavoro ingegneristico visti anche i tempi della sua realizzazione, dovesse prolungarsi in un altro tunnel che avrebbe forato il tessuto stesso dello spazio. Ad un'estremità c'era “lo Zeus”, la gigantesca macchina ancora silenziosa che parve a Stone sorniona come una belva in agguato. Jason Vanderberg stava venendo incontro ad Henry Stone con un passo rigido e legnoso che lo faceva sembrare una marionetta mossa da fili. - Fra poco cambierà tutto - disse con quella sua voce incolore. - Stone, a lei l'onore di premere il pulsante di accensione dello Zeus. Henry Stone allungò la mano facendo uno sforzo enorme e fermandosi a metà del gesto: sembrava che il suo corpo si ribellasse in tutte le sue fibre. In quel momento, in modo del tutto incongruo, gli venne da pensare a Jane Hutton. Jane Hutton dai lunghi capelli ricci e dal seno prorompente che faceva sempre saltare i bottoni della camicetta, era stata sua compagna per due anni quando frequentavano entrambi l'università, solo che lei era una studentessa di biologia; lui non riusciva a darle torto, aveva scelto ingegneria perché offriva migliori opportunità di lavoro, ma la materia inerte era certamente molto meno affascinante dei sistemi viventi.