Tentare di dirigere la mia fluttuazione in un’altra direzione sarebbe sciocco: se le due linee si estinguono, lo fanno ben oltre il mio campo visivo e in uno spazio così denso non ce la farei ad arrivare sino a quell’orizzonte. Posso solo provare a salire ancora. Mi sbraccio di nuovo, spingo sulle gambe e fletto i dorsali quanto più posso. Di quanto mi sarò spostato? Una decina di metri? Eppure non mi sono discostato per nulla dai fasci di luce in continuo avvicinamento. Sono esausto, devo riposare un po’. Credo di avere un paio di minuti per escogitare una soluzione, basta che rimanga lucido. Mi  sono trovato molte volte in circostanze complesse con poco tempo a mia disposizione e me la sono sempre cavata.Il tempo, già. A ogni metro guadagnato dalle soglie mi convinco che sia quella la soluzione, la dimensione spaziale attraverso la quale fluttuare.Se solo intravedessi uno spiraglio, un canale dove le rette lucenti non potessero raggiungermi, mi ci fionderei facendo appello a tutte le mie energie residue, ma non c’è traccia di nulla del genere qui attorno.

“Forza, proviamo ancora a risalire” mi impongo.

Uno sforzo vano, presumibilmente. Per quanto mi dimeni, alla fine una delle due soglie arriverà a me, ma non posso accettare inerme la sconfitta. Non fa parte della mia indole.

Nuoto verso l’alto in questa sorta di sabbie mobili invisibili, e intanto penso. Penso a come governare il dominio del tempo e alle leggi a cui il cosmo nel quale sono imprigionato deve sottostare.

Le soglie ora sono qui, a due passi.

Il loro fievole lucore illumina lo spazio circostante e dal buio pesto vedo propagarsi una massa melmosa costituita da incomprensibili bizzarrie cromate. È ancora lontana, ma si sta estendendo rapidamente come fosse una metastasi. Dà l’impressione di poter divorare a breve questo universo, e con esso me.

È la gamma di marginalità, la modulazione della percezione del reale tramite deliri artificiali. Il ruscello che pensavo di poter controllare sta dilagando, pare voler trasformarsi in un oceano incommensurabile e travolgermi.

Ho la fronte madida di sudore, mentre il mio corpo è indolenzito dai tentativi fallimentari di trovare una via d’uscita.

Distolgo lo sguardo dalla gamma di marginalità per tornare a fissare le soglie. Io devo essere quel disturbo che non supera le soglie, quell’anomalia che il comparatore con isteresi dei servizi segreti non può rilevare.

Annegare nella gamma di marginalità significherebbe perdere la ragione; venir prima intersecato da uno dei due fasci equivarrebbe alla mia disfatta senza possibilità di riscatto. Non saprei cosa preferire.

Arrivano prima le soglie: stanno per attraversarmi, e solo ora noto dietro ciascuna di esse una figura opaca. Da una parte un uomo non molto alto con una camicia dalle maniche arrotolate e una cravatta dalle eccentriche figure bianche e arancio; dall’altra un tizio che non mi ricordo di aver mai incontrato. Von Klain?

Irragionevolmente non sono ancora rassegnato, penso solo allo scorrere del tempo.

Un suono proveniente dall’innesto nella mia testa mi sveglia. Sono trascorse le tre ore di sonno che mi ero concesso.

Impiegherò almeno dieci minuti per trasmettere picchi di venti petabit per secondo.