Realtà fuori luogo

Nolan stesso ha dichiarato: “Ho sempre trovato interessante che ciò che è racchiuso in un sogno – paura, felicità o fantasia – venga prodotto dalla mente dell’uomo e questo ci fa capire quanto sia incredibilmente straordinario il potenziale della nostra immaginazione. Ho iniziato a pensare di come ciò potesse essere applicato a un grande film d’azione con una dimensione umana.” E ancora: “L’essenza del film è il concetto che l’idea rappresenta per la nostra mente il parassita più resistente e potente. Ve ne rimarrà per sempre traccia…da qualche parte. Il pensiero che qualcuno possa avere la capacità di invadere i sogni, nel senso reale del termine, e di rubare idee, anche la più privata, è estremamente avvincente”.Spostando continuamente l’orizzonte della domanda che imperversa implicitamente per tutto il film – quello che sto vivendo è vero o sto sognando – il regista di Memento ha cercato anche la catalizzazione del lavoro degli attori, coinvolti fin da prima dell’inizio delle riprese in vere e proprie sessioni di analisi, allo scopo di definire meglio le condizioni dei livelli multipli del sogno. E il cast ha manifestato, nelle varie interviste, lo stesso disorientamento che potrebbero provare gli spettatori. Oltre a Di Caprio (Cobb), da Joseph Gordon-Levitt (Arthur) a Ellen Page (Ariadne), da Tom Hardy (Eames) a Dileep Rao (Yusuf) a Marion Cotillard (Mal), da Ken Watanabe (il cattivo Saito) a Cillian Murphy (la vittima Robert Fischer), tutti hanno dichiarato in modo sincero la loro passione per questo film e la difficoltà a comprenderlo fino in fondo. Sugli interpreti svetta poi un trio di vecchi leoni che aggiunge un’impronta di sofisticata aristocrazia al film: il sempre ironico Michael Caine, suocero di Cobb e forse l’unico veramente preoccupato per la sua sorte; l’ambiguo Pete Postletwhite, padre morente del giovane Fischer e figura ingombrante anche nella sua assenza; il roccioso Tom Berenger, avvocato e padre “facente funzioni” di Fischer.

Insomma, è davvero consistente l’asse tra Nolan, Dick e Fellini? Sulla presenza dello scrittore di Chicago c’è poco da discutere: Dick aleggia su buona parte della trama, tanto che forse una citazione nei titoli di coda non ci starebbe male. Più sfumato il parallelo con il maestro riminese. Nolan, con solo sei film all’attivo, non ha un percorso paragonabile a Fellini e, soprattutto, non può averne le qualità uniche nel convertire strutture simili a versi poetici in immagini. Il talento di indubbio spessore del cineasta inglese resta saldamente ancorato agli stereotipi del cinema d’azione a stelle e strisce, e la volontà di tradurre l’idea prima di tutto in un ottimo spettacolo, ricco di azione e adrenalina, lo distingue da Fellini e, ad esempio, da un altro visionario come David Cronenberg. Inoltre, nel già citato 8 e ½ il dilemma del protagonista, un regista in cerca ispirazione nei ricordi e nei sogni, era più che altro un pretesto per riflettere sul senso di confusione e di smarrimento dell’uomo moderno, alle prese con un mondo il cui senso gli sfugge tra le mani. Una riflessione messa in una forma visiva surreale. Nel film di Nolan questo tipo di riflessione e di profondità sembra non esserci. In Inception, la semplice considerazione sulla capacità dei sogni di influenzare la realtà ed esserne influenzati, rischia di annacquarsi nel gioco delle stratificazioni e dello sfondo d’azione, relegando l’idea della condivisione dei sogni alla semplicità iniziale.

Le recensioni dagli USA sono state generalmente positive, pur criticando l’eccessiva seriosità e un vago senso di incertezza nella definizione del suddetto limbo, che forse è l’unica vera banalità della trama. Molti hanno evidenziato che il film andrebbe rivisto più volte, per comprenderlo meglio. E forse per capire se il modo di Nolan di intendere il cinema, al di là degli aspetti tipicamente hollywoodiani, possa in qualche modo unire le visioni spettrali di Dick e quelle poetiche di Fellini. In fondo sognare è lecito; a patto che i sogni ci appartengano davvero.