Carlo Bordoni non nasce come intellettuale legato alla fantascienza. Da dove viene questo interesse?
Da molto lontano. Dagli anni dell’adolescenza, dalle estati passate a divorare fascicoli di Urania e a scrivere i primi racconti. Ho pubblicato il mio primo romanzo di fantascienza, ovviamente sotto pseudonimo, su Cosmo dell’editore Ponzoni, quando avevo diciannove anni. Direi che invece i miei interessi intellettuali sono nati proprio da lì, dall’apertura incondizionata verso il nuovo e l’insolito, dalla non convenzionalità del sapere che la fantascienza americana di quegli anni sapeva suggerire. E quindi anche dalla marginalità che l’ha sempre accompagnata.
Com'è nato l'incontro con Marco Solfanelli?
Se ben ricordo in un convegno degli anni Ottanta sulla riviera romagnola, a cui partecipò anche Anthony Burgess. C’è stata un’intesa immediata (anche se con idee politiche diverse) e da lì è iniziata una collaborazione fruttuosa con la pubblicazione dello storico saggio La paura il mistero l’orrore dal romanzo gotico a Stephen King, che è del 1989. E poi con i libriccini di Micromegas, una collana di saggistica breve, che sta andando molto bene. La nuova serie ha già pubblicato sedici titoli, alcuni dei quali di autori stranieri, dalla sociologia alla filosofia, dalla psicologia alla critica letteraria.
Fin dal primo numero citazioni dotte, articoli di grande livello, ermeneutica, storia, letteratura mainstream. Volete diventare la Micromega della SF?
Perché no? La mia storica fanzine (che poi tentai di trasformare in rivista), come sai, è del 1965 e si chiamava proprio Micromega. Testata poi utilizzata dal gruppo dell’Espresso, non essendo mai stata registrata.
Un tema per ogni numero. Perché questa decisione?
Per dare più uniformità al contenuto. E la tendenza attuale delle riviste quella di preferire numeri monografici per far convergere il lavoro dei collaboratori su un tema specifico.
Collaboratori e autori prestigiosi come Vietti, Asciuti e Gallo. Come siete riusciti a convincerli, specie Asciuti che è forse il protagonista più schivo della SF italiana?
Si vede che c’è stata un’empatia. Quando succede, significa che c’è un bisogno inespresso.
SF in Italia: dopo avere iniziato questo percorso, diresti ancora che non esiste?
Sono più di quarant’anni che lo diciamo, solo che gli editori e il grande pubblico se ne sono accorti un po’ più tardi. È una vecchia polemica che risale agli anni Cinquanta e Sessanta, quando era luogo comune affermare che i dischi volanti non potevano atterrare da noi.
Robot e Androidi è il tema del primo numero, che tocca però anche il tema del corpo modificato. Perché aprire proprio con questo?
Quello della macchina è un tema classico: la SF nasce, com’è noto, come reazione alle paure sociali provocate dall’introduzione delle macchine nei processi produttivi. Lo ha spiegato bene Romolo Runcini nei suoi studi sul fantastico, autore che – non a caso – apre il primo numero di IF. E la macchina più inquietante è quella che assume sembianze umane.
Transumanesimo e Connettivismo. Cosa ne pensi?
Sono tematiche assolutamente innovative e complesse, dimostrano come la SF si sia evoluta rispetto alle storielle sui marziani e alla paura dell’invasione. Credo, anzi, che rappresentino la qualità filosofica che la letteratura fantastica è in grado di produrre oggi al suo livello più elevato: pensare l’uomo in una prospettiva insolita e rivoluzionaria.
Ti senti dentro o fuori questa "new wave" della SF italiana?
Fuori. Anche per ragioni anagrafiche!
Con questa "rivoluzione", per ora prevalentemente metodologica e mediatica, che il Connettivismo e il Transumanesimo ci stanno proponendo, come mai punti ancora su temi come l'ucronia, che sembrerebbero avere fatto il loro tempo?
Come direttore di IF sono aperto ad ogni tematica; ritengo invece l’ucronia (sulla quale mi sono cimentato anche come narratore!) un argomento degno della massima attenzione, dal momento che non ci sono interventi critici che l’analizzino adeguatamente. Speriamo di colmare questa lacuna con il quarto numero della rivista, dedicato proprio all’ucronia, dove ci sarà, tra l’altro, il testo del dibattito tra Marc Angenot e Darko Suvin tenutosi a Montreal nel 1982.
IF è anche narrativa. Pensi di approfondire questo aspetto dedicato alle fiction degli autori italiani?
Sicuramente. Una rivista solo teorica sarebbe un’anatra zoppa. È giusto dare voce agli autori italiani, recuperando testi classici e ospitando le prove di qualità dei nuovi autori.
Pensi di aprire anche a testi stranieri?
Sicuramente. Cominciamo già nel secondo numero con un racconto breve di Robert Bloch, Il non-morto, che fa parte dell’antologia Belle da morire, da me curata per Bompiani nel 1994. Poi vedremo. Dipenderà anche dal tema monografico di ogni numero.
Quale sarà il tema del prossimo numero?
L’oltretomba. Altro potente argomento del fantastico, che mi ha sempre affascinato. Lascerei fuori il vampirismo, per il momento, a cui vorrei dedicare un numero specifico. C’è da analizzare il fenomeno Stephenie Meyer, per esempio, sul quale è stato detto ancora poco…
E infine: le riviste di SF in genere tendono a essere un prodotto effimero. Pensi che IF ci sia per rimanere?
Mi auguro di sì. Se un prodotto è valido, è destinato a rimanere anche dopo la sua fine. Penso alle riviste come a un corpus complesso che abbia una sua unità di fondo e anche una sua finitezza, che le faccia considerare nel suo insieme. Il primo numero di IF è solo il primo capitolo di un grande libro in costruzione, che rimarrà, nel tempo, a disposizione di chi vorrà leggerlo.
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