La mia intervista con Paolo Aresi comincia in modo un po' diverso da come immaginavo: è lui che comincia a chiedermi che lavoro faccio, come ci sono arrivato, e quando scopre che sono ingegnere e ho fatto una tesi sull'astronautica parte un fuoco di fila di domande. Alla fine gli faccio rispettosamente notare che sono io a dover intervistare lui, e non viceversa. "Deformazione professionale", se la ride lui, che è un giornalista dell'Eco di Bergamo. A questo punto l'intervista vera e propria può finalmente partire.

Puoi riassumermi la tua carriera di scrittore?

Il mio primissimo racconto l'ho scritto per il primo concorso organizzato da Robot. Era il 1976, avevo 18 anni. Non ebbe nessun riscontro perché non valeva nulla, ma non mi scoraggiai. Da allora non smisi più di scrivere. In seguito partecipai a un concorso del Cosmo Informatore, con un racconto brevissimo che si piazzò un pochino meglio: a metà classifica, grazie al voto dei lettori. Il

concorso successivo fu quello organizzato dalla Time Machine di Mauro Gaffo. Ebbi due racconti segnalati, e a quel punto ero gasato. Fu così che scrissi il mio primo romanzo: Oberon, l'avamposto tra i ghiacci.

Allora come ora per la fantascienza non c'erano molti sbocchi. Solo la Nord pubblicava qualche italiano. Telefonai, e una segretaria mi disse: "ci mandi una sintesi del romanzo e una sintesi di ciascun capitolo". Dentro di me rimasi quasi offeso. Come si poteva svilire così un romanzo, giudicarlo sulla base di una sintesi? Ma oggi lo capisco bene: una sintesi ti fa comunque capire se non sei di fronte a un analfabeta. Comunque sia, obtorto collo, sintetizzai. Viviani rispose, dicendosi disposto a esaminare il romanzo, senza impegno. Lo inviai, e dopo sei mesi mi disse che non era male. C'erano alcune cose buone, altre che andavano riviste e mi invitò a venire in redazione per parlarne. Scrissi così una nuova versione sulla base delle critiche di Viviani e Gaffo, sviluppando maggiormente alcune parti che secondo loro erano superficiali. Oberon uscì nel 1987. Dopodiché ebbi un lungo blackout come scrittore, per ragioni personali e non.

Si direbbe che anche tu, come altri autori di fantascienza, abbia sperimentato l'esperienza di vedere un tuo romanzo pubblicato senza che la tua carriera ne ricevesse un'autentica spinta.

Io penso che in Italia, tra i tanti problemi che abbiamo avuto, non c'è mai stato un Campbell. Nessuno ha mai seriamente tentato di creare una vera scuderia di autori, aiutandoli a emergere, correggendoli, dando loro fiducia e investendo su di loro, anche dal punto di vista economico. Anche lo stesso Viviani ha lanciato diversi autori che poi sono rimasti lì: un romanzo pubblicato o due, e poi basta. Certo, anche lui ha subito i condizionamenti del mercato. Ma comunque sia non è mai esistita una scuderia, in grado di raccogliere le forze narrative, svilupparle e imporle sul mercato.

Così un autore giovane e senza esperienza viene pubblicato, e poi scopre amaramente di essere solo al punto di partenza di un viaggio difficilissimo.

Torniamo alla tua carriera: che successe poi?

Uscito dai miei problemi personali, misi in cantiere un nuovo romanzo. Viviani me lo rifiutò in quanto non abbastanza fantascientifico. Lo proposi poi a Interno Giallo, senza esito. Entrai in crisi, temevo di non essere più capace di scrivere. Poi decisi di cambiare genere, e scrissi un romanzo abbastanza viscerale e rabbioso: Toshi si sveglia nel cuore della notte. Ebbi la fortuna di riuscire a farlo prendere in esame da un'agenzia letteraria piuttosto importante, la Grandi & Associati, che lo accettò, e riuscì a venderlo a Granata Press, che allora era una casa editrice di un certo rilievo.