Vivere in un mondo parallelo per diciassette anni – tanti ne sono occorsi a J.K. Rowling per ideare, affinare e scrivere i sette volumi che compongono la saga di Harry Potter – non è uno scherzo. Ancor meno lo è separarsene, se si è vissuto più che felicemente in quella realtà alternativa. E difficilissimo è, soprattutto, scrivere un addio convincente a suggello di ciò che ha rappresentato quasi metà della propria vita (l’autrice ha avuto l’idea del maghetto a venticinque anni e ne ha ora quarantadue).

Ponendo le cose in questa prospettiva, si può comprendere quale fardello abbia gravato sulle spalle di questa scrittrice nel momento in cui ha dovuto licenziare il suo settimo manoscritto, Harry Potter and the Deathly Hallows (nella traduzione italiana). Un fardello al quale, oltretutto, erano appese le gigantesche aspettative di milioni di fan conquistati in tutto il globo durante un cammino di tre lustri.

Pur con tutte le attenuanti di cui sopra, la soluzione data alle stampe farà senza dubbio discutere, perché Harry Potter e i Doni della Morte non è esente da vistosi difetti che - quando si riesce a mettere da parte la lente deformante dell’affetto provato verso una saga di pur meritatissimo successo - è impossibile non avvertire.

Facciamo anzitutto un passo indietro e vediamo quali premesse, o per meglio dire promesse, sono balenate nella saga e alla fine non sono state mantenute in questo tassello conclusivo della vicenda.

In Harry Potter e i Doni della Morte viene anzitutto attenuato quel fascino derivante dall’idea del mondo parallelo che si sviluppa inosservato accanto al nostro: la storia è divenuta infatti una guerra fra maghi e benché le sue sorti siano destinate a influire anche sui babbani, il teatro che essa occupa è rappresentato prevalentemente dal mondo magico. Viene inoltre a mancare quel tocco di fantasia che l’autrice aveva finora profuso a piene mani e che era in grado di trasfigurare magicamente la realtà e i suoi problemi quotidiani: la maggior parte degli incantesimi e degli oggetti magici usati in questo volume è infatti già nota e, benché non manchi qualche nuova introduzione, si tratta di interventi marginali in cui non si notano guizzi creativi di particolare impatto.

Anche il cast è pressoché completo e dunque nessun nuovo personaggio di spicco viene a movimentare la situazione: semmai si avverte la mancanza di alcune figure di particolare valenza archetipa, sacrificate nei precedenti volumi sull’altare della guerra magica. Così Silente il mentore, le figure paterne di James Potter e di Sirius Black, o alcuni precettori di rilievo dell’Ordine come Malocchio Moody o lo stesso Remus Lupin – in questo libro assolutamente defilato fino alla sua definitiva scomparsa – sono grandi assenze che pesano sul dipanarsi della trama. La stessa battaglia fra Bene e Male è ora foriera di ulteriori dipartite, in una quantità tale che si giunge per forza a domandarsi il motivo di tanta carneficina: non quello logico, visto che si parla sostanzialmente di una

J.K. Rowling
J.K. Rowling
guerra civile, quanto quello letterario. Si ha infatti l’impressione che la Rowling ricerchi ostinatamente lo shock a tutti i costi, sottraendo dispettosamente agli affetti del lettore molti dei personaggi a lui particolarmente cari. Allo stesso tempo, però, questa serie di uccisioni finisce per diventare un mero conteggio numerico, perché poche di esse sono mostrate in diretta e, anche fra quelle poche, raramente si ritrova il pathos che la situazione richiederebbe.

Dal canto loro gli incastri della trama, solitamente molto ben pianificati, nei Doni della Morte scricchiolano pericolosamente e più di una volta l’immaginazione del lettore deve supplire per superare qualche contraddizione o qualche noioso buchetto. Non si tratta, per carità, di voragini che compromettono la coesione del romanzo, ma nondimeno queste piccole falle fanno capolino in più di un’occasione e risultano ancor più vistose se si pensa a certi meccanismi perfettamente oliati che la Rowling ha saputo confezionare in volumi come La Camera dei Segreti, Il Prigioniero di Azkaban e Il Calice di Fuoco.

Per quanto riguarda l’andamento narrativo, anche qui il confronto col passato è tutto a favore di quest’ultimo: il crescendo che ha contraddistinto almeno i primi quattro volumi si diluisce nei Doni della Morte in una continua altalena di frenate e accelerazioni che a lungo andare disorientano: a lunghe pagine di sostanziale inattività si susseguono infatti colpi di scena serrati e ravvicinati nel tempo.