Appena uscito dal portone del condominio nel quale abitavo, mi recai alla caffetteria che si trovava a mezzo isolato di distanza e che aveva in me il più assiduo e prevedibile dei clienti. Ogni mattina, alle sette e un quarto in punto, mi presentavo al bancone. Il barman non mi chiedeva neppure cosa desiderassi. Si limitava a mettermi di fronte la tazzina fumante. Dopo aver sorseggiato l’espresso che costituiva da anni la mia colazione di scapolo, aprii l’elegante busta che il giorno prima mi era stata consegnata dal portiere. L’avevo messa in tasca e dimenticata. Era riapparsa magicamente tra le mie mani nel momento in cui avevo frugato la giacca alla ricerca degli spiccioli con i quali pagare la consumazione.

La missiva conteneva un invito che non poteva non allettarmi. Una mostra di foto inedite scattate tra il 1880 e il 1898 dal conte Ercole Nervi. Vedute di Roma e della sua gente. Proposta irresistibile per un cultore, quasi maniacale, della capitale e della sua storia. Il cartoncino color avorio con l’intestazione della Fondazione Storica Corrieri, spiegava, in eleganti caratteri corsivi, che la collezione era stata recentemente rinvenuta in una soffitta di Villa Nervi, in seguito a radicali lavori di ristrutturazione. Sulla busta il mio nome ed il mio titolo accademico: Professor Antonio Martelli. Stavo rileggendo il testo quando la vibrazione dello smartphone segnalò l’arrivo di una chiamata: – Allora Anto’, hai ricevuto l’invito?

Era Carmelo Balsamo, mio vecchio, grande amico e noto antiquario palermitano che, come al solito, andava dritto al punto.

Senza perdere tempo coi dettagli, i saluti ad esempio.

– Credo l’abbiano inviato a tutti i soci sostenitori – risposi.

– È per giovedì. Ho già provveduto a prenotare il biglietto aereo. Mi fermerò da te per un fine settimana di bagordi!

E già, perché Carmelo, oltre ad essere un ricco scapolone è anche un viveur militante. Si accorge istantaneamente se nel raggio di cinque chilometri ci sono ballerine, attricette, spogliarelliste e simili. Nel breve lasso di dieci minuti le individua, le abborda – elegantemente, devo ammetterlo – e ottiene un appuntamento per la sera stessa.

Nel suo genere, un talento naturale.

Io sono fatto di tutt’altra pasta. Sono il classico professore di liceo di mezz’età. Non che non mi piacciano le donne, ma sono un po’impacciato e mi trovo più a mio agio con i ruderi e i documenti d’archivio.

Eppure siamo grandi amici sin dal tempo dell’università. Nonostante le differenze, anche fisiche. Lui è alto, magro e con i tipici occhi azzurri dei siciliani di ceppo normanno. Io sono più basso, con corti capelli neri e occhiali di tartaruga. Unico vezzo, un pizzetto alla D’Artagnan.

Ottenuti due giorni di ferie, giovedì mattina, intorno alle otto, ero già a Fiumicino in attesa di Carmelo. Il terminal degli arrivi nazionali era semideserto. La metà d’aprile sembra un periodo sonnolento, stretta com’è tra Pasqua e i ponti del 25 e primo maggio. Solo una torma di liceali in gita, con l’entusiasmo dei sedici anni, rallegrava un po’ i freddi corridoi di vetro e metallo.

Stavo ammazzando il tempo scorrendo i titoli di un quotidiano quando venni travolto da un ciclone umano.

– Antonino bello! – tuonò un vocione dal marcato accento palermitano.

Mi venne da ridere alla vista dello spilungone che si avvicinava carico di borsoni e trolley.

– Hai deciso di traslocare? – lo canzonai.

– Due cosucce appena, Anto’ – si giustificò. – Un cambio, il pigiama, lo spazzolino da denti. Qualche comodità.

Ci abbracciammo. L’entusiasmo del siciliano mi faceva sempre bene.

Caricammo i bagagli nel cofano posteriore della mia decrepita Renault 9.

– Gran bella macchina, professore! – ululò lo sciagurato.

– Ringrazia il Cielo per questo catorcio. Meriteresti di andare a piedi! – lo rimbeccai. – Questo passa il governo, attraverso il mio misero stipendio d’insegnante.

Nella mezz’ora che impiegammo per percorrere il tragitto tra Fiumicino e casa mia, Carmelo riuscì a condensare i due mesi trascorsi dal mio ultimo soggiorno palermitano.

– Lo sai che quella sventola della Contessa Librizzi se la intende con l’autista? Quello zotico che ha scovato da qualche parte nella provincia di Agrigento! – mi raccontò.

Ricordavo la nobildonna che avevo conosciuto un pomeriggio alla presentazione dell’ultimo romanzo di un notissimo scrittore siciliano. Una bellezza che non passava inosservata.

– Beh, sarà contento lo zotico – ribattei.

– E tu, a donne come sei messo?

– Come al solito, direi – risposi acido.

L’antiquario scoppiò a ridere fragorosamente.

La giornata trascorse piacevolmente. Il mio amico aveva il potere di mettermi puntualmente di buon umore ed il pranzo, consumato in una vecchia trattoria di Trastevere, fu un continuo rievocare episodi divertenti. Dopo il caffè, decidemmo di raggiungere a piedi la sede della fondazione. Ci sarebbe voluta circa un’ora, ma ne sarebbe valsa la pena: Roma in primavera è magnifica e una salutare passeggiata ci avrebbe aiutato a smaltire le generose libagioni. Raggiungemmo la nostra destinazione intorno alle sei del pomeriggio, proprio mentre la mostra veniva aperta al pubblico. Accanto al portone principale del seicentesco palazzo Corrieri, un pannello su cavalletto presentava la mostra:

Ercole Nervi, fotografo 1880 – 1898

così recitava, in lettere dorate, sullo sfondo di una immagine color seppia del Lungo Tevere. Entrammo senza indugiare. Io ero interessatissimo alla collezione, che sapevo inedita. Carmelo distribuiva alternativamente occhiate da intenditore alle fotografie ed alle eleganti signore, già numerose nelle sale che ospitavano l’esposizione.

Per quanto mi riguarda, ero particolarmente attratto dai ritratti, molto meno dai panorami. Nervi eccelleva negli uni e negli altri.

Mi soffermavo a lungo su ciascuna immagine. I volti dicevano molto di quello che era stata la Roma del XIX secolo. Garzoni, sarte, bottegai, operai, monelli. I volti seri, gli abiti dimessi, i piedi spesso scalzi, testimoniavano una condizione di palese povertà, quando non di miseria.

In molti si erano prestati a farsi ritrarre dal conte con l’ossessione per la fotografia. Curiosamente, il nobiluomo non sembrava interessato ai borghesi e agli aristocratici. Soltanto al popolo.

Ero davvero soddisfatto di quanto era esposto e avevo dimenticato di essere in compagnia di un amico. Ma stavo per ricevere una sorpresa. La più grande e inaspettata della mia vita.

Premetto che sono affetto da una latente timidezza che mi impedisce gesti eclatanti, in particolar modo in pubblico. Eppure in quel pomeriggio di primavera, alla presenza di decine di persone, proruppi in una sorta di grido strozzato: – Carmelo! Carmelo!

Alcuni si girarono nella mia direzione. In condizioni normali ciò mi avrebbe fatto desiderare di sprofondare un paio di metri sotto terra. Ma in quel momento, di fronte ad una fotografia datata 1887, il mio sgomento era tale da superare qualunque altra emozione.

– Carmelo, vieni… Ti prego – mugolai.

Il palermitano capì che qualcosa di serio era successo, altrimenti non avrebbe piantato in asso la bella quarantenne che stava intrattenendo con le solite chiacchiere al centro della sala.

– Che succede Antonio? – mi disse, per una volta serio, circondandomi le spalle con un braccio.

– Guarda la foto e leggi la didascalia – biascicai.

Fioraia, Piazza Della Minerva, 1887. Bella donna. – lesse e commentò.

– È impossibile! – esclamai.

– Perché? C’erano molte belle donne anche centotrenta anni fa – ribatté.

– È impossibile – spiegai. – Perché io questa donna la conosco.

– Dunque, vediamo un po’ – iniziò Carmelo in tono semiserio, dopo un attimo di riflessione. – La tipa dimostra tra i venticinque e i trent’anni. Se la foto è del 1887, dev’essere nata intorno al 1860.

Dapprima non capii dove volesse andare a parare.

– Quindi, mi pare logico – riprese – che adesso dovrebbe avere più di centocinquanta anni. Li porta bene?

Il suo sorrisetto sfottente mi riportò alla realtà e servì ad alleggerire la tensione che mi attanagliava.

– Scusa Carmelo, ho detto una sciocchezza. Forse quella che ho visto è solo una discendente. Magari assomiglia come una goccia d’acqua alla trisnonna – cercai di razionalizzare.

– Così va meglio. Fa la fioraia anche lei?

– Perché me lo chiedi? È importante?

– La faccenda mi incuriosisce. Posso vederla? – chiese senza tanti preamboli.

Il mio amico, quando c’è una donna di mezzo, si scuote immediatamente dalla sua consueta indolenza e attiva i sensi al massimo, come un uccello da preda.

– Se ti fa piacere, domani ti accompagnerò da lei. Gestisce una piccola libreria d’arte dalle parti della Cattedrale di San Paolo – concessi.

– Ottimo. Uniremo l’utile al dilettevole. Magari in bottega ha qualche buon libro del XVIII secolo. Ne vendo a bizzeffe, di questi tempi. Ma adesso andiamo via, comincio ad annoiarmi.

Carmelo si attardò ad acquistare il catalogo della mostra, sul quale era riprodotta anche la fotografia che mi aveva sconvolto. Quindi uscimmo in strada. Si avvicinava l’ora di cena e l’aria fresca mi rianimò, scuotendomi dal turbamento che mi aveva colto dopo la bizzarra scoperta. Ci avviammo a piedi verso casa mia. Non avevo voglia di restare in giro più del necessario.

Il mattino di venerdì ci vide in piedi di buonora. Io non mi alzo mai tardi. Carmelo sempre, ma la prospettiva di incontrare una donna affascinante lo aveva buttato giù dal letto.

Scendemmo al bar sottocasa a fare colazione, cappuccino e cornetto per entrambi. Poi salimmo a bordo della mia Renault ed affrontammo il tentacolare traffico capitolino.

Calcolai che fino a San Paolo avremmo impiegato più di un’ora. Previsione azzeccata. Carmelo, reso allegro dal mattino luminoso, passò tutto il tempo a ciarlare, spettegolando della Palermo bene.

Riuscimmo posteggiare non lontano dall’intricato dedalo di viuzze che si sviluppano a nord est della cattedrale.

– La libreria si trova all’inizio di Via delle Sette Chiese – spiegai.

– Come l’hai trovata? Ce ne saranno tantissime a Roma.

– Sono un topo di biblioteca, non dimenticarlo. Ma in effetti questa l’ho scoperta appena una ventina di giorni fa.

– E sei rimasto colpito dalla proprietaria – insinuò Carmelo.

– Si anche se non le ho neanche parlato. Era impegnata con altri clienti ed avevo fretta quel giorno, ma mi sono ripromesso di tornare quanto prima.

Il sole ormai alto scaldava piacevolmente. Di lì a poche settimane, però, la vicinanza del Tevere e l’aumento delle temperature avrebbe reso eccessiva e fastidiosa l’umidità.

Camminammo per pochi minuti, allontanandoci dal fiume, ed arrivammo in breve in Via delle Sette Chiese.

Proprio all’inizio, si aprivano le tre luci di una piccola libreria. Un’insegna di legno dipinta a caratteri dorati, dal gusto decisamente retrò, recitava: Libri Antichi e d’Arte.

L’interno era stato suddiviso in modo da costituire un unico locale. Due lunghi scaffali correvano parallelamente alle pareti mentre un enorme bancone, sul fondo, tagliava trasversalmente l’ambiente. L’insieme appariva molto ordinato e razionale, ma tutt’altro che arido. Qui e là, anche sugli scaffali, numerose piante facevano bella mostra di sé in vasetti disposti su graziosi centrini.

– Oh… Tutto molto inglese! – si lasciò scappare Carmelo.

Mi limitai scrollare le spalle.

Nel frattempo, ci eravamo addentrati nella sala.

Per quanto mi riguarda, devo ammettere di non essere una persona dotata di grande sensibilità fisica e neanche di grande intuito. Anzi, sono piuttosto distratto e mi sfuggono molte delle sfumature che alcuni riescono a cogliere nella semplice vita quotidiana. Ad un certo punto, tuttavia, provai la netta impressione di essere osservato. Non mi era mai capitato di provare una sensazione così forte. Era come se, più che uno sguardo, qualcuno avesse posato due forti mani sulle mie spalle. Mi voltai di scatto e la vidi.

Era proprio come la ricordavo. Una donna di inusuale bellezza.

Lunghi capelli ondulati, tra il rosso e il castano chiaro. Occhi azzurro pallido molto distanziati, messi in evidenza dalla carnagione chiarissima. Zigomi pronunciati. Naso piccolo e dritto sopra una bocca decisamente grande. Statura media, figura armonica seppure più muscolosa di quanto ci si aspetterebbe in una donna. Età assolutamente indefinibile. Indossava un vestito leggero dal motivo floreale, davvero molto grazioso.

– I signori desiderano? – disse con voce da contralto.

Diciamo che per alcuni secondi rimasi imbambolato alla sua presenza, come preda di un bizzarro incantesimo.

Per fortuna Carmelo entrò in “automatico”, per così dire, ed attaccò con la solita schermaglia preparatoria che rappresentava il suo approccio standard all’universo femminile. Fece riferimento nell’ordine: al bel negozio, all’ottimo gusto per l’arredamento, alla vasta scelta di titoli, all’opportunità di iniziare un proficuo rapporto di lavoro.

La donna rimase ad ascoltarlo in silenzio, imperturbabile, quindi volse lo sguardo nella mia direzione. Mi ero un po’ ripreso e mi azzardai a parlarle: – Scusi. Come si chiama?

– Stilbe – rispose sorridendomi.

Questo è stato il primo di molti eventi eccezionali. Mi spiego: se io e Carmelo incontriamo delle donne, queste si interessano solo a lui. Che è brillante e di bell’aspetto. Io sono medio in tutto. Stempiato, con gli occhiali e non particolarmente prestante.

Eppure Stilbe stava palesemente ignorando il mio amico per concentrare la sua attenzione su di me.

– Lei è già stato qui – mi disse. – Ma non si è trattenuto.

– L’ho vista impegnata con altri acquirenti ed avevo lezione di lì ad un’ora – mi giustificai.

– Lei è un’insegnante, mestiere affascinante.

– La penso anch’io così, anche se ormai sono in pochi ad apprezzarne l’utilità – mormorai scuotendo la testa.

Carmelo, dopo un istante di sorpresa, aveva riacquistato tutto il suo fair play e si era messo educatamente in disparte.

Stilbe, dopo un altro scambio di battute col sottoscritto, chiese anche a lui che tipo di interesse lo legasse ai libri.

Quando lo seppe antiquario, lo spedì ad uno scaffale che ospitava alcune belle edizioni di libri di storia, stampati ad Amsterdam nei primi anni del XVIII secolo. Carmelo capì l’antifona e andò a sfogliare i tomi, togliendosi elegantemente dai piedi.

– Cosa le interessa esattamente? – mi chiese la donna.

La sua voce aveva qualcosa di ipnotico, era come la rappresentazione sonora di un gorgo marino.

– La Roma del XIX secolo, subito dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia. Mi interessano tutti i documenti relativi a quel periodo, compresi i carteggi e le collezioni fotografiche.

– Posso trovarle qualcosa. Torni domani sera, alle sette. La libreria sarà aperta solo per lei.

Era un congedo perentorio. Quasi un ordine.

Chiamai Carmelo, salutammo e uscimmo in strada.

Carmelo appariva molto divertito dalla situazione. Apparentemente superficiale, era invece un buon amico e si doleva del mio scarso successo con le donne.

– Stilbe… Che strano nome. Che strana creatura – mi disse mentre tornavamo verso il centro. In quella occasione, il mio amico manifestò per la prima volta la perplessità che avrebbe poi caratterizzato tutti i suoi rapporti successivi con la donna.

– Sì, è davvero una strana ed affascinante creatura – mormorai.

– Hai fatto colpo, Anto’ – disse allegramente.

– Non credo proprio – risposi infastidito. – È che la ragazza deve avere intuito il tuo scarso interesse per i libri.

– Stai scherzando, vero? Possiede una copia, in ottime condizioni, della Hystoria Imperi Romani di Julius Zandwoort del 1756. Ti faccio un assegno e domani la ritiri per conto mio.

Evidentemente lo spirito dell’inguaribile viveur non ottenebrava il fiuto sopraffino del mercante.

Io mi sentivo piuttosto inquieto. La libraia mi era sembrata subito una persona assolutamente al di fuori del comune. Ma non soltanto per l’innegabile appeal. Tutto in lei appariva straordinario. La voce, gli occhi, il linguaggio corporeo. Inoltre, ma allora non avrei saputo come giustificare questa impressione, Stilbe sembrava dotata di una forza incredibile. Sia chiaro, non mi riferisco alla vitalità o dell’energia che caratterizza le persone molto attive. Parlo di forza fisica. Solo a guardarla sembrava in grado di battere – a mani nude – qualsiasi uomo, per quanto forte. Questa impressione lasciava perplesso me per primo, eppure, come ebbi modo di scoprire ben presto, era più che fondata.

Trascorremmo tranquillamente il resto della giornata: una puntata da Feltrinelli, pranzetto in trattoria, caffè, passeggiata per favorire la digestione, cinema nel tardo pomeriggio.

Quest’ultimo avrebbe dovuto essere interessante. In un piccola sala dalle parti del Pantheon davano uno dei miei film preferiti, il Settimo Sigillo di Bergman. Ma non mi riuscì di seguirlo. Pensavo solo a Stilbe.

Quel sabato è stato un giorno che non potrò mai dimenticare. Ha cambiato, anzi stravolto, la mia vita in modo radicale. Sia dal punto di vista affettivo che per quanto riguarda la visione del mondo. Quest’ultima per me era legata ad una solida razionalità, accompagnata da quel substrato di buon senso che con la maturità è giocoforza acquisire.

Non ho mai creduto, ad esempio, ai fantasmi. Mi sono sempre fatto beffe delle più comuni superstizioni, quelle, per capirci, riguardanti gatti neri e specchi rotti. Per quanto riguarda la religione, poi, mi professo decisamente agnostico.

Insomma, per tutta la vita ho mantenuto un atteggiamento di incrollabile scetticismo nei confronti del soprannaturale, dell’ultraterreno, dell’inusuale. Possiamo dire che sono – sarebbe meglio dire che ero – coi piedi saldamente piantati per terra. Fino a quel fatidico sabato.

Il pensiero fisso dell’appuntamento con la libraia riuscì a sconvolgere i miei ritmi: mi svegliai prestissimo, prima delle cinque; mi vestii e mi sbarbai, poi scesi in strada.

Mi sembrava che nulla avesse importanza. Feci a meno di quel caffè senza il quale al mattino non riuscivo a connettere. Ero indifferente persino all’inarrivabile bellezza di una mattina di primavera a Roma che, in condizioni normali, mi avrebbe reso euforico.

Mentre passeggiavo per le strade semideserte, la domanda che avevo rimosso cominciò a tormentarmi: chi era la fioraia, ritratta centoventi anni prima da Nervi, tanto somigliante a Stilbe?

Trascorsi le prime ore del mattino come trasognato.

Il sabato avevo soltanto le prime due ore di lezione. Dopo lasciavo il liceo intorno alle dieci e mezza e mi godevo il centro della capitale. Questo rito, per anni, era stato uno dei pilastri della rassicurante routine da scapolo attempato che mi ero costruito.

Varcai l’imponente ingresso dell’istituto rispondendo a stento al saluto di studenti e colleghi. Entrai in classe senza neanche prendere il registro dal mio cassetto personale. I ragazzi si accorsero subito che c’era qualcosa di strano e accolsero mugugnando la consegna che escogitai per potermene stare un po’ in pace:

– Avete due ore per scrivere una relazione sull’ultimo argomento di storia che abbiamo svolto, la politica estera di Napoleone III.

Mentre scrivevano rimasi a fantasticare finché la seconda campana non mi distolse da quello strano torpore.

– Corsetti, ritira i compiti e ficcali nel cassetto della cattedra. Lunedì li correggerò – dissi mentre uscivo, lasciandomi dietro una ventina di teenager ridacchianti.

Rientrai in casa poco dopo mezzogiorno.

– Oggi cucino io! – proclamò Carmelo.

Il mio buon amico possedeva molti pregi, non ultimo quello di essere un cuoco provetto. Aveva trascorso la mattinata in giro per mercatini e ne era tornato con frutta, ortaggi e pesce.

Mentre finiva la preparazione delle pietanze mi scrutava con un misto di apprensione e divertimento.

– Sei cotto, fratello… Non ci sono dubbi! – mi disse a un certo punto.

Mi limitai a brontolare e tornai ad immergermi nei miei pensieri.

A riscuotermi ci pensò il profumo che arrivava dalla cucina, seguito dopo pochi minuti dal richiamo del palermitano: – A tavooolaaaaa!

Come primo, pasta con le sarde alla palermitana. Semplicemente divina.

Per secondo involtini di pesce spada. Magnifici.

Rifiutai l’insalata di pomodoro e cipolla – anche questa tipicamente siciliana – perché doveva essere buonissima, ma dovevo pur sempre incontrare una donna nel tardo pomeriggio.

– Beh Carmelo… Sei proprio da sposare – concessi.

– Anche Eleonora La Mantia me lo dice sempre. Te la ricordi?

– La restauratrice? Difficile dimenticarla. Perché non la prendi in parola?

– Non perché, come ammette lei stessa, si trova sul versante sbagliato dei quaranta.

– Cavolo, non si direbbe. Io credo che mi sacrificherei ugualmente.

– Per essere bella è bella, non ci piove – tagliò corto il mio amico. – È che proprio non mi sento pronto per il grande passo.

Insomma, tra le chiacchiere del dopo pranzo, il caffè e una breve passeggiata mi riuscì di non pensare in modo troppo ossessivo all’appuntamento con Stilbe. Carmelo era davvero un amico prezioso.

Ma alle sei meno dieci lo salutai e, seguito dal suo sguardo divertito, corsi a tirar fuori dal garage la fida Renault.

Il tragitto in macchina fino a Via delle Sette Chiese, al sabato pomeriggio, sarebbe stato un tormento per chiunque. Anche per me che, in condizioni normali, non tollero neanche un traffico moderato. Figuriamoci quello della capitale nel fine settimana. Ma ero come anestetizzato dalla prospettiva di un nuovo incontro con Stilbe. Guidavo come in trance.

Posteggiai vicino a San Paolo e mi diressi di buon passo verso la libreria. Mi accorsi appena che il cielo si scuriva e che nubi minacciose, davvero poco frequenti in primavera, si addensavano su Roma.

Entrai nella bottega quasi in punta di piedi. Il profumo dei fiori, per quanto delicato, mi colpì immediatamente. Rispetto alla mia visita precedente le piantine, disposte elegantemente sugli scaffali e sul bancone, sembravano più numerose. Come la prima volta, il vasto ambiente appariva deserto. Accennai un leggero colpo di tosse per annunciarmi, ma non giunse nessuno. Presi a guardarmi intorno e, dopo pochi minuti, cominciai a scorrere con lo sguardo i dorsi dei libri esposti. Non so quanto tempo rimasi a contemplare i volumi, molti dei quali di grande valore, quando qualcosa mi riportò alla realtà. La netta sensazione di essere osservato mi fece girare su me stesso e mi ritrovai nuovamente di fronte a Stilbe. La incontravo per la terza volta eppure il suo aspetto mi colpì come mai prima. I capelli lunghi e ondulati erano un’esplosione rossa che ne contornava il volto. Gli occhi azzurri erano due gioielli scintillanti, resi preziosi dalla assoluta assenza di trucco. La grande e bellissima bocca atteggiata ad un enigmatico sorriso.

Anche stavolta indossava un vestitino corto e leggero che esaltava la perfezione delle gambe dritte e muscolose e non nascondeva più di tanto il seno pesante. Provai una violenta fitta di desiderio.

– Lei è puntualissimo – mormorò venendomi incontro.

– Forse soltanto prevedibile – risposi.

La vidi ridere, per la prima volta. Con la testa leggermente rivolta all’indietro e con gli occhi chiusi. Poi tornò a fissarmi.

– Non si sottovaluti – disse tornando immediatamente seria.

– Non mi sono mai sottovalutato – ribattei fieramente.

Di nuovo sorridente, dopo avere affisso un cartello con la scritta CHIUSO all’ingresso, si diresse alla porta che dava sul retro. Le andai dietro, ritrovandomi all’interno di un piccolo ed elegante appartamento.

Seduto accanto a Stilbe su un comodissimo divano di pelle potei sfogliare alcuni libri molto interessanti sulla Roma ottocentesca. Ma ben presto mi mise in mano un grosso volume dalla copertina scura.

Il pesante album, rilegato in marocchino, rappresentava ai miei occhi un tesoro inestimabile. Conteneva fotografie in bianco e nero scattate da Ercole Nervi tra il 1885 e il 1901. Le immagini erano particolari, molto diverse dai paesaggi e dai ritratti che costituivano il grosso del Corpus dell’arte fotografica del XIX secolo. La straordinaria perfezione tecnica balzava subito agli occhi, ma veniva quasi oscurata dalla forza dei soggetti rappresentati. Tutta la prima parte della raccolta era dedicata al sottoproletariato romano, quel popolino derelitto e senza prospettive che viveva ai margini di una società, allora come oggi, matrigna nei confronti dei più deboli. Alcune delle scene rappresentate erano un autentico pugno nello stomaco. Una raffigurava una madre giovanissima, poco più che una bambina, che allattava un neonato. I vestiti miseri, praticamente dei cenci, ed i piedi scalzi raccontavano una vita grama, ai limiti della sopravvivenza. In un’altra, un ciabattino sedeva a un basso tavolo da lavoro. Era circondato dalla sua numerosa prole, costituita dalla bellezza di sette ragazzini di varia età. Il gruppo, da cui emanava una grande dignità, posava compatto come un manipolo di legionari dell’antica Roma.

Ma le fotografie che mi colpirono più di tutte furono quelle, una ventina in tutto, che chiudevano la raccolta.

Nudi di donna… Di una sola donna. Quasi sempre ritratta di schiena. Una schiena magnifica, muscolosa come quella di un leopardo.

Il bianco e nero, virato alla tonalità seppia, permetteva solo di farsi un’idea dei colori. La modella doveva essere rossa di capelli.

L’ultima foto mi sconvolse, un ritratto a figura intera. Sullo sfondo di una tenda chiara, la donna che mi sedeva accanto appariva in tutta la sua abbagliante femminilità. I fianchi larghi, le gambe dritte, il seno generoso e lo sguardo da divinità pagana di Stilbe.

– Una tua antenata… – mormorai più che altro per disinnescare la follia della situazione.

– Lo sai che sono io – replicò.

– Perché me le hai mostrate?

Negli istanti successivi credo di aver compreso ciò che un uomo, pur con la migliore buona volontà, non potrà mai capire. E cioè come si sente una ragazza quando si ritrova ad essere in balia di un bruto… Poi la sensazione sgradevole svanì.

La forza con la quale mi abbracciò era prodigiosa, da togliere il fiato. Credo che neanche una campionessa olimpica avrebbe potuto eguagliarla. La cosa più potente che esprimeva Stilbe, tuttavia, era una sorta di felicità fanciullesca. Il sorriso e lo slancio con il quale mi baciò si sarebbero detti quelli di un’adolescente. Dapprima irrigidito – diciamo pure spaventato – mi lasciai poi travolgere dal desiderio e risposi entusiasticamente al bacio. La passione mi fece dimenticare l’assurdità della situazione: stavo amoreggiando con una vecchietta di circa centocinquant’anni, sia pure col fisico degno di una valchiria.

Ad un certo punto, la libraia si alzò e mi si mise di fronte, sorridente. Si denudò in un istante, con un unico movimento fluido delle braccia. Il suo corpo era quanto di più bello avessi mai visto.

Rimasi a bocca aperta mentre mi si inginocchiava di fronte e mi sbottonava la camicia. Dopo qualche attimo di smarrimento, mi strappai di dosso gli altri abiti. Quando fui nudo anch’io, Stilbe mi gratificò con un sorriso di approvazione.

Già. Perché il dimesso Professor Antonio, tutto casa, scuola e libri, poteva – e può ancora – vantare un fisico ben proporzionato e muscoloso. Oltre, in quel momento, ad una solida erezione. La donna rimase un po’ a rimirare quell’inequivocabile segno d’ammirazione. Poi lo percorse in tutta la sua lunghezza con la punta di un dito con un gesto più giocoso che erotico. Quindi mi gettò nuovamente le braccia al collo. Ci baciammo appassionatamente, quasi con furore.

Adesso, dopo tanto tempo, mi sono convinto che quella sera Stilbe trattenne i suoi slanci. Sono convinto che se mi avesse abbracciato come poteva mi avrebbe spezzato almeno un paio di costole.

Invece fu dolce e delicata, nonostante la forza da orso.

Quando la passione fu saziata, dopo la mezzanotte, restammo in silenzio l’uno accanto all’altra.

Ad un certo punto le sussurrai: – Potresti avere qualsiasi uomo.

– Potrei avere qualsiasi idiota – mi rispose.

– Mi conosci da pochissimo.

– Ti conosco da quando ti ho visto. È sufficiente.

Non ci furono altri scambi di battute. Mi addormentai dopo un po’. Non saprei dire se anche lei si addormentò, ma al mio risveglio non era al mio fianco. Mi stiracchiai ben bene mentre cercavo di riconoscere quella stanza che non mi apparteneva.

Dalla cucina proveniva un delizioso profumo di caffè e di croissant appena sfornati. Mi trascinai verso la cucina dove mi folgorò una immagine incantevole. Una di quelle, per capirci, che hanno fatto la fortuna – giustamente aggiungerei – della commedia erotica all’italiana.

La bella Stilbe, china sui fornelli, indossava solo un grazioso grembiulino. Per il resto era nuda ed il laccio annodato alla vita tracciava un confine di stoffa tra la splendida schiena e l’armonica rotondità delle natiche.

Mi accostai delicatamente a lei, accarezzandole i fianchi.

– Ah… Ah… Non mi hai preso di sorpresa. Ti ho sentito arrivare – esclamò senza smettere di sfaccendare.

Ma il mio palese desiderio non l’aveva lasciata indifferente. Facemmo nuovamente l’amore, lì dove eravamo, ancora con grande slancio.

Alla fine mi staccai e mi appoggiai stremato al bordo del tavolo. Lei mi venne vicino e mi baciò delicatamente.

Poi fece due passi indietro fermandosi di fronte a me, al centro della stanza. Slacciò il grembiule e lo fece cadere in terra restando nuda al mio cospetto con le mani sui fianchi ed un espressione, al tempo stesso, allegra e trionfante. Perfettamente conscia della sua avvenenza, era dotata di una robusta dose di compiaciuto esibizionismo.

Il corpo armonico e sorprendentemente muscoloso rendeva Stilbe un perfetto concentrato di bellezza e seduzione. E, incredibilmente, mi aveva scelto.

Sono passati tre anni da quei giorni. Stilbe è ancora la mia amante. Appassionata, generosa, mai prevedibile.

Non facciamo molta vita mondana, ma tutti coloro che ci frequentano, uomini e donne, l’ammirano e ne apprezzano il fascino non comune.

Nonostante i frequenti rapporti sessuali e l’assoluta assenza di precauzioni anticoncezionali, non abbiamo figli.

Non potremmo averne. Non so esattamente cosa sia, ma di sicuro Stilbe non è una donna, pur assomigliando tanto ad una femmina della specie umana da non destare sospetti neanche in quelli che la conoscono da anni. Numerose peculiarità del suo organismo testimoniano un’evoluzione assolutamente separata rispetto a quella dell’Homo Sapiens. Ad esempio, ha trentasei denti e sembra poter trattenere il fiato indefinitamente.

La mia partner riesce ad andare indietro con la memoria fino alla Roma Repubblicana, intorno al II secolo a.C. ed afferma di aver vissuto per un po’ a Ostia. Non ha ricordi distinti di un tempo precedente e non ha idea di chi possano essere stati i suoi genitori. Sostiene di aver conosciuto di persona Marco Licinio Crasso, Giovanni dalle Bande Nere, Caravaggio e Giuseppe Garibaldi. Non sa spiegarsi la possente muscolatura e l’incredibile forza di cui dispone, ma afferma di avere sempre percepito la sua peculiarità rispetto agli altri esseri umani.

Ha sempre avuto lo stesso nome e, ovviamente, è a conoscenza della omonimia con la ninfa delle acque.

Ben presto, comunque, ha dovuto dissimulare le caratteristiche che maggiormente la distinguono dalle persone comuni. La longevità, ad esempio. Personalmente non riesco a spiegarmi come possa esistere una creatura così simile ad una donna, ma che donna non è.

Le ipotesi che riesco a formulare si contano sulle dita di una mano: una improbabile mutazione; l’appartenenza ad una specie distinta; una origine aliena. Quest’ultima è la spiegazione che mi convince di più anche se non riesco a capire da dove possa essere arrivata una simile creatura. Immagino che la somiglianza con gli umani sia dovuta alla “convergenza evolutiva” tipica degli organismi di origine diversa, ma che vivono allo stesso modo. Quella, per capirci, che rende simili un delfino e uno squalo. Di una cosa comunque sono certo: se proviene da un altro mondo questo deve possedere una gravità decisamente superiore al nostro, altrimenti non si spiegherebbe l’impressionante forza fisica di cui dispone.

Stilbe ama le grandi capitali europee, ma ha una autentica predilezione per la Città Eterna. Vi ha quasi sempre risieduto, se si escludono i periodi in cui ha dovuto cambiare aria per non palesare la sua sorprendente resistenza all’invecchiamento. Ricorda con piacere il Rinascimento, quando ha vagato in lungo ed in largo per le città dell’Italia settentrionale. Ma Roma è Roma e non riusciva a distaccarsene a lungo.

Intorno al 1885 vi aveva conosciuto Ercole Nervi e ne era divenuta amante, musa e modella. I magnifici nudi che la ritraevano erano un omaggio alla sua bellezza ed una testimonianza dell’indiscutibile talento del fotografo romano. Questi, però, si era ammalato ed era morto, ancor giovane, nei primi anni del Novecento. Stilbe non ne parlava quasi mai, ma dai pochi accenni che le sfuggivano si capiva che aveva amato molto quell’uomo così fuori dal comune.

Carmelo deve avere intuito qualcosa. In lui convivono un’intelligenza prontissima ed uno spiccato istinto animale.

In alcune occasioni, trovandoci insieme a cena o durante le manifestazioni culturali che frequentiamo, ho notato che guarda Stilbe con l’espressione perplessa di chi non riesce a capacitarsi di qualcosa.

In realtà lei piace molto agli uomini, ma non a Carmelo. Eppure il mio amico è, per sua stessa ammissione, un impenitente donnaiolo, quello che qualcuno definirebbe un tombeur de femmes. Si dà da fare con donne giovani e mature, belle o soltanto graziose, ricche o nullatenenti. Per la verità, bisogna riconoscerlo, è gentilissimo anche con quelle che non suscitano i suoi appetiti. Ad esempio, ascolta cortesemente gli interminabili monologhi delle numerose vecchie zie che si ritrova. Nei confronti delle mogli e delle fidanzate degli amici è affettuoso, sollecito e le fa ridere raccontando buffi aneddoti.

Ma quando incontra la mia compagna si chiude in un riserbo per lui inusuale e non le rivolge alcuno dei complimenti che elargisce normalmente al genere femminile.

Non che sia scortese, ci mancherebbe. La sua classe naturale e la sua educazione impeccabile glielo impedirebbero comunque. Ma tratta Stilbe con lo stesso cameratesco distacco che governa i suoi rapporti con gli altri uomini.

La cosa non mi stupisce. In fondo una volpe rimane indifferente di fronte alla più fresca delle verdure.

La mia compagna lo disorienta, sfugge alle categorie con le quali ha dimestichezza. Forse è per questo che, nonostante il grande affetto che mi dimostra, di tanto in tanto mi guarda sconsolato, scuotendo la testa.

A me, invece, va benissimo così.