La fantascienza non è un esercizio di immaginazione del futuro, ma è un racconto dell’Uomo del presente, delle sue paure, dei suoi sogni. È su questo presupposto che si è creato il forte legame che unisce l’antropologia a questo genere letterario: una solida relazione pluridecennale.

In quest’articolo si vuole dare una breve sintesi di questa relazione, in particolare focalizzando il discorso su come l’antropologia ha voluto e vuole interpretare la produzione fantascientifica. Per questa ragione, non si tratterà, invece, dell’interesse profondo che gli scrittori di fantascienza, quali Ursula Le Guin, Arthur C. Clarke, più recentemente Cory Doctorow e Neil Gaiman, hanno avuto per la disciplina, guardando piuttosto allo sviluppo del dibattito e del contributo antropologico.A differenza di quanto si può pensare è già da quasi sessant’anni che il mondo accademico guarda alla fantascienza con interesse, trovandovi elementi non solo per immaginare nuove tecnologie, ma soprattutto per capire meglio il presente, la società. La scoperta della fantascienza come terreno di ricerca delle scienze sociali, e in particolare dell’antropologia, la disciplina che si interroga e studia le forme della cultura dell’Uomo, è databile nel secondo dopoguerra, in terra statunitense. È negli anni ’50, infatti, che si inizia a parlare di Space Anthropology, i primi sistematici lavori di ricerca sull’immaginazione del futuro e dell’umanità che lo popola.

La relazione tra antropologia e fantascienza si andò a consolidare nei decenni successivi. Molto prima che Donna Haraway publicasse, nel 1991, il suo celebre Simians, cyborgs and women: the reinvention of nature e che si iniziasse a parlare di “Cyborg Anthropology”, un terreno fertile di ricerca fu proprio quello dell’interazione uomo-macchina e più in generale sulle trasformazioni profonde che la cultura non solo occidentale stava iniziando a intraprendere.

Infatti, all’alba della rivoluzione informatica e delle telecomunicazioni, Margareth Mead, una delle personalità di spicco del mondo antropologico statunitense, riconosceva già all’inizio degli anni ’70 l’eccezionalità del momento storico, delle nuove possibilità e nuovi concetti che iniziavano a popolare la cultura popolare.

Di fronte a questo quadro urgeva la disciplina ad interrogarsi, a porsi nella condizione di interpretare al meglio le sfide del presente per essere capace di svolgere una funzione di costruzione culturale. In particolare è proprio Mead, più di altri studiosi, a dare impulso alla futurologia, lo studio sistematico delle possibilità di sviluppo del prossimo futuro. A partire dal contributo di Mead e degli altri studiosi, quali per esempio Arthur Harkins e Margoroh Maruyama, si è assistito ad un moltiplicarsi di pubblicazioni e appuntamenti incentrati sul tema del futuro culturale.

L’antropologia ha, però, riconosciuto un altro importante ruolo alla fantascienza. Essendo il genere letterario che mette compiutamente in scena la reazione dell’uomo del presente di fronte all’altro e all’altrove, all’impensabile, allo sconosciuto, è a partire dagli anni ’50 che gli scritti fantascientifici sono iniziati a circolare nelle lezioni universitarie come strumenti didattici. Per prima nell’Università del Texas, durante le lezioni di Chad Oliver, i racconti e romanzi fantascientifici sono stati usati per far comprendere da vicino agli studenti temi altrimenti difficilmente intuibili, quali lo shock culturale del primo contatto, ovvero l’alterità di visione del mondo. Nell’arco di un cinquantennio, la fantascienza si è fatta largo nel quotidiano della didattica antropologica e oggi non si ha più titubanza nell’usare scritti, film e videogiochi fantascientifici per meglio far capire concetti e scenari ai nuovi studenti della disciplina.

Oggi l’antropologia, anche nel Vecchio Continente, continua la sua relazione con la fantascienza. Se è vero che altre discipline, quali i cultural studies nati negli anni Novanta, hanno continuato con maggiore enfasi questa relazione, è altrettanto vero che il legame non è venuto meno. In particolare, il legame non si sviluppa solo guardando alla fantascienza come strumento per pensare al futuro o mezzo didattico. La fantascienza è sicuramente uno strumento per capire meglio il presente ed interrogarci su come la nostra società affronta l’ignoto e il cambiamento.

Se, infatti, Klara Capova nel suo saggio The Charming Science of the Other (2013, scaricabile liberamente all’indirizzo: http://etheses.dur.ac.uk/8516/) mostra come la nostra società guarda e scandaglia il cielo alla ricerca di vita aliena utilizzando quei filtri culturali che la stessa produzione fantascientifica alimenta, più recentemente nel mio Il cibo dell’apocalisse (2017, scaricabile liberamente all’indirizzo: http://www.dadarivista.com), ho voluto suggerire come la recente produzione filmica apocalittica e la peculiare raffigurazione sociale che la caratterizza ci suggerisce come il nostro immaginario di umanità futura sia profondamente ancora legata allo stesso paradigma di uomo moderno, razionale, homo homini lupus, in eterna contrapposizione con una natura che vuole a tutti i costi dominare; la stessa idea di umanità di cui oggi il dibattito pubblico riconosce i limiti e l’impatto negativo in termini di sviluppo globale.

Questi sono, però, solo alcuni degli esempi di ricerche antropologiche presenti che usano la fantascienza come terreno di indagine, strumento attraverso cui pensare e meglio capire la nostra umanità, e nuove strade si aprono ogni giorno guardando alle stelle, alle nuove scoperte scientifiche e ai mutevoli scenari tecnologici e sociali che il presente apre.

Volgendo al termine di questa breve storia di un forte legame, quante volte ogni appassionato di fantascienza si è sentito dire dagli amici e dai parenti: “Perché ti piace la fantascienza? Perché leggi (o guardi) certe cose?” La relazione tra fantascienza e antropologia ci suggerisce quello che ogni appassionato in fondo sente nel suo profondo; che nelle storie di scintillanti astronavi, passionali intelligenze artificiali, e scontri multidimensionali si può trovare non solo un passatempo, ma strumenti per meglio capire la società in cui viviamo e guardare con più consapevolezza all’indomani che viene. I tanti antropologi che si sono cimentati in questo certificano questo fondamentale dato.