Immediatamente si misero tutti a parlare, non-parole terrorizzate che erano puro panico, un suono che fece desiderare a Valentine di tapparsi le orecchie. – Per favore, compagni – disse l’oratore. Era sui sessanta e gli stavano ricrescendo i capelli, ma aveva l’aspetto dei vecchi sopravvissuti allo zombismo, un dito o due piegati a un angolo strano da un agente della polizia segreta, sotto il mento una pappagorgia di pelle inflaccidita da vari anni bui di carestia. – Per favore! Restiamo calmi! Se nel vostro condominio c’è un rifugio e potete arrivarci a piedi in meno di dieci minuti, andateci. Se il vostro palazzo non ha un rifugio o se ci vogliono più di dieci minuti per arrivarci, potete utilizzare una parte dello spazio qui dentro come rifugio. I sedili scenderanno due alla volta, in modo impedire un fuggi fuggi, e quando il vostro raggiunge il suolo, vi prego di uscire con calma ma senza perdere tempo e di raggiungere i rifugi. 

Leeza le afferrò il braccio. – Vale! Il mio palazzo è a più di dieci minuti! Dovrò restare qui! Oh, i miei poveri genitori! Penseranno… 

– Penseranno che sei al sicuro con me, Leeze – disse Valentine, abbracciandola. – Resterò con te e che i nostri genitori si preoccupino pure. 

Si diressero insieme al rifugio, con i volti pallidi e in silenzio tra la folla lenta che strascicava i piedi sui gradini che scendevano al primo seminterrato poi al secondo, e poi nel rifugio sotto quest’ultimo. Un eroe di guerra distribuiva maschere a tutti quelli che entravano, e per loro dovette andare a cercarne di misura adatta ai bambini, così attesero pazientemente sulla soglia. 

– Valentine! Questo non è il tuo posto! Va’ a casa e lascia spazio a noi che ne abbiamo bisogno! – Era Reeta, la sua peggior nemica, che era stata la sua migliore amica la settimana prima. Aveva la faccia rossa, la indicava col dito e strillava. – Vive dall’altra parte della strada! Guardate che egoista! Ha il suo rifugio dall’altra parte della strada e toglie un posto ai suoi compagni, li manda in giro per strada… 

L’eroe la zittì con un gesto secco e guardò Valentine duramente. – È vero? 

– La mia amica è spaventata – disse lei, stringendo la spalla tremante di Leeza. – Resto con lei. 

– Va’ subito a casa – disse l’eroe, rimettendo nella cassa una delle maschere per bambini. – La tua amica starà bene e la rivedrai tra pochi minuti, quando suonerà il cessato allarme. Sbrigati. – La voce e lo sguardo non ammettevano replica. 

E così Valentine si fece largo a fatica su per le scale – quanta gente scendeva nel rifugio! – e oltre la porta e quando uscì, fuori era come un’altra città. Le strade, sempre così animate e piene di traffico, erano silenziose. Nessuna aeromobile in volo. C’era silenzio, silenzio come il ronzio nelle orecchie quando alzi troppo il volume delle cuffie. Era così strano che dalle labbra le sfuggì una risata, ma non di divertimento; era più una risata di paura. 

Rimase ferma ancora un momento e poi ci fu un rumore, come di un tuono lontano. Un secondo dopo, un vento leggero, tallonato da uno più forte, gelido e poi caldo come un forno quando si apre lo sportello, che quasi la gettò per terra. E odorava di cose morte o di qualcosa di mortale. Lei corse più veloce che poteva dall’altra parte della strada, bussando come una dannata al portone di casa. Proprio mentre allungava la mano per aprirlo, ci fu un rombo di tuono più forte, che la sollevò da terra e la scagliò in aria, facendola roteare. Mentre girava vorticosamente, vide l’ardita cupola rossa del cinema disintegrarsi, sbriciolarsi in un milione di schegge che cominciarono a grandinare sulla strada. Poi lo scoppio la gettò con violenza sul marciapiede e non vide altro.