“Questo non è un fallimento. Siamo orgogliosi di essere i primi uomini ad avventurarsi oltre la Luna. Per favore, proseguite il programma spaziale. Portateci sulla Luna. Fate una base sulla Luna. Inviate un altro gruppo a esplorare il sistema solare, un gruppo che possa tornare indietro a farvi un resoconto. Fatelo in nostro nome e con la nostra benedizione.

Buon Natale a tutti.

E a tutti, buona notte.”

Il messaggio portò alle lacrime la madre di Richard. Suo padre le posò la forte mano sulla spalla. E Walter Cronkite, quell’uomo vigoroso, si tolse gli occhiali e si strofinò per un attimo gli occhi, quindi si ricompose come aveva fatto cinque anni prima, quando un presidente era morto inaspettatamente.

Cronkite non disse molto altro. Non mandò in onda i resoconti radio degli ultimi istanti. Fece in modo che quello che Lovell, Borman e Anders intendevano come il loro ultimo discorso fosse il loro ultimo discorso.

Non si interrogò sulle modalità della loro morte, né si concentrò sul fallimento.

Si concentrò sul futuro.

Si concentrò sulla speranza.

E anche Richard.

O almeno ci provò.

Ma mentre lavorava alla conquista dello spazio, mentre studiava fisica e astronomia, mantenendosi in ottima forma fisica per essere in grado di trasformarsi in astronauta in un batter d’occhio, guardava nel suo telescopio l’oscurità oltre la Luna e diceva:

Cosa hanno visto in quelle ultime ore?

Cosa hanno provato?

E dove sono ora?

Quasi quarant’anni dopo, stavano ritornando a casa.

O meglio, vicino a casa quanto lo permettevano una navicella morta e un equipaggio defunto, senza che nessuno uscisse fuori per salutarli.

L’Apollo 8 finì in un’orbita ellittica attorno al sole, proprio come gli esperti avevano previsto. Ci vollero poco più di sedici mesi per completare l’orbita, ma per la maggior parte del tempo la piccola navicella si mantenne ben oltre il piano dell’orbita terrestre. La prima volta che l’Apollo 8 era tornata a casa, o almeno nelle vicinanze, era stato dopo diciott’anni.

Fu avvistata quasi per caso. La luce del sole, riflessa sulla capsula, attirò l’attenzione di astronomi dilettanti in tutto il mondo. 

Qualcosa di piccolo, insignificante, che rifletteva la luce in modo insolito.

La gente fece ipotesi su cosa fosse o potesse essere. I telescopi giganti, dall’Osservatorio Lowell al nuovo telescopio orbitante, iniziarono a seguirlo, e giunsero delle foto che mostravano una familiare forma conica.

Non può essere, dissero gli esperti.

Invece sì.

Tutti lo speravano.

Richard passò quelle giornate entusiasmanti pregando i suoi amici all’osservatorio dell’Università del Wisconsin di puntare il telescopio sulla capsula; era sicuro di rovinare le loro ricerche ma non gliene importava niente. 

Non era nemmeno più uno studente di astronomia. Aveva terminato i suoi studi post-dottorali in aeronautica e ingegneria e aveva appena fondato l’azienda che lo avrebbe reso il primo miliardario del paese.

Tuttavia a quell’epoca era ancora uno studente, con poco potere e ancor meno controllo.

Alla fine, dovette andare nella periferia della città, lontano dalla luce, cercando di vedere da sé la capsula. Rimase per ore a guardare, al freddo intenso e nella neve alta fino alle caviglie.

Si convinse di aver visto un bagliore di luce, che non era polvere spaziale o la stazione spaziale che gli Stati Uniti stavano costruendo nell’orbita terrestre, e neanche uno dei satelliti che erano stati lanciati negli ultimi anni.

No, era sicurissimo di aver visto la navicella, e la cosa alimentò ancor di più la sua ossessione.

Forse fu quella, più del ricordo sbagliato della perdita originaria, la causa del bagliore di luce sulla capsula nel dipinto.

Forse fu il catalizzatore di tutto.

O forse, come affermava sua madre, era la sua immaginazione iperattiva, tenuta a bada dalla sua prima esperienza, la sua prima vera comprensione, della morte.

Solo che quella a Richard non sembrava morte. Non gli era mai sembrata tale. Nella sua mente vi era sempre la possibilità che i tre uomini fossero vivi. Forse erano andati avanti, così come aveva fatto la loro nave, esplorando il sistema solare, vedendo cose che nessun uomo aveva visto da vicino. Oppure avevano incontrato gli alieni, e quegli alieni, benigni come quelli nelle puntate di Star Trek della sua infanzia, li avevano salvati.

Sapeva che era improbabile. 

Era entrato in una capsula Apollo nel museo di Huntsville, Alabama, ed era rimasto sconvolto da quanto fosse stretto lo spazio vitale. Gli esseri umani non erano fatti per vivere in posti così piccoli.

Sapeva anche quanto fossero fragili quelle capsule. Il fatto che l’Apollo 8 fosse sopravvissuta così tanti anni era un miracolo. Lo sapeva. Sapeva anche che le sue idee sulla sopravvivenza degli uomini erano un residuo della sua identità infantile, la quale non voleva credere alla morte degli eroi.

Tutti i suoi piani, tutte le sue speranze, per i diciott’anni che seguirono quel primo avvistamento, si basarono sulla teoria (la certezza) che gli astronauti erano morti. E che l’Apollo 8 sarebbe sopravvissuta e tornata.

Le navi che aveva costruito, le missioni che aveva progettato durante quegli anni, si basavano sull’idea che stava dando la caccia a una nave della morte, a un frammento di storia. 

Avrebbe recuperato l’Apollo 8, così come un archeologo avrebbe riportato alla luce una tomba dalle sabbie o un esploratore delle profondità marine avrebbe documentato i relitti di navi famose come il Titanic.

Richard aveva speso buona parte della sua fortuna e della sua vita cercando un modo per mandare un saluto all’Apollo 8 nel suo prossimo viaggio di ritorno nelle vicinanze della Terra. 

E ora che la navicella era stata avvistata nella sua bizzarra orbita ellittica, puntuale proprio come avevano previsto gli scienziati, lui era pronto.

Ed era terrorizzato.

Certe notti si svegliava tra sudori freddi, domandandosi se un uomo potesse mai realizzare i sogni della propria infanzia.

Allora ricordava di non avere ancora realizzato quel sogno. Aveva solo creato l’occasione.

E certe volte si chiedeva perché non bastasse.