Dopo le stupefacenti rivelazioni sulle origini dei marziani (Angeli Spezzati, 2005), avevamo lasciato Takeshi Kovacs in transito attraverso gli abissi siderali alla volta di Latimer, intenzionato a far ritorno al suo pianeta natale. E all’inizio de Il ritorno delle furie (Woken Furies, 2006), lo ritroviamo in effetti su Harlan’s World, più precisamente a Tekitomura, rilanciata nell’economia planetaria dal piano post-bellico del nuovo governo. Tek’to è diventata la testa di ponte per New Hokkaido, continente-isola infestato dagli strascichi dell’ultimo conflitto che ha opposto i ribelli quellisti alle truppe governative. E questi strascichi hanno le fattezze di micidiali armi nanotecnologiche, la cui distruzione offre collocamento alle squadre speciali dei disAt. Quando un affare andato male lo costringe ad abbandonare la città in cerca di acque più tranquille, Kovacs – che, come i lettori che lo hanno già conosciuto sapranno bene, è la quintessenza dell’individualismo – si ritrova coinvolto proprio in una di queste squadre, gli Infiltratori di Sylvie, dopo averne salvato la vita alla comandante.

Kovacs è ben poco cambiato dalle incarnazioni precedenti se non nella sua nuova, scadente custodia. Si trova alle prese con uno dei suoi traffici illeciti – un presunto recupero di pile – in un’attività che solo più avanti nella storia troverà una giustificazione; ed è sempre in fuga dal passato. Un passato che unisce la sua giovinezza a Newpest e la maturità vissuta su Harlan’s World nella parentesi tra la missione terrestre a Bay City (http://www.fantascienza.com/magazine/libri/8479/bay-city/) e la guerriglia di Sanzione IV. Un passato che si ripropone con prepotenza quando la famiglia Harlan mette sulle sue tracce un cacciatore di taglie che non è altri che la ricustodia di se stesso: un Kovacs giovane e feroce, appena rientrato dall’esperienza nel Corpo di Spedizione. Un back-up di cui il Kovacs che abbiamo conosciuto nei capitoli precedenti non aveva mai avuto ragione di sospettare l’esistenza.

Ma non è solo questa versione giovane di sé l’unica sorpresa che il passato gli riserva. Nella sua odissea su Harlan’s World, Kovacs cambierà corpo guadagnandosi una custodia sportiva Eishundo, si procurerà nuove cicatrici e avrà modo di fare i conti con molti altri frammenti della sua storia, presenze già incontrate o sfiorate nelle pagine che ci hanno fatto appassionare al suo personaggio: l’inflessibile Virginia Vidaura, l’amore perduto per Sarah, e lo spettro immortale di Quellcrist Falconer, forse la più riuscita invenzione di Richard Morgan. E decine e decine di altri personaggi: disAt e mercenari, yakuza e i loro rivali della mafia haiduci, topi di dati e basisti, quellisti dediti al surf e nostalgici della rivoluzione, Spedi e servizi di sicurezza degli Harlan. Una galleria di nomi e di segni, sulla pelle e nella memoria: ognuno con la sua storia da raccontare, ognuno con la sua causa da inseguire.

La caratteristica che emerge prepotente da questo romanzo è la complessità del mondo dipinto da Richard K. Morgan. Un mondo che ci viene rivelato nella sua totalità attraverso elementi di storia e di sociologia, di archeologia e di ecologia, di politica, di cultura e di immaginario (a livello di spettacolo ma anche di dicerie popolari). Un mondo svelato nella sua totalità ma non nella sua interezza, perché si ha la chiara sensazione che dietro la superficie la creazione di Morgan nasconda una profondità di ordine superiore, che occasionalmente affiora dai meandri di una storia altrettanto complessa e ambiziosa.

Il ritorno delle furie è un romanzo di sintesi, che fonde le istanze del future noir, l’hard boiled declinato in chiave futuristica che avevamo avuto modo di apprezzare in Bay City, con la fantascienza di stampo bellico che ci aveva iniettato orrore e adrenalina attraverso le pagine di Angeli Spezzati. L’ambientazione urbana e i teatri di guerra si alternano nella storia, mentre dallo sfondo si stacca la figura che ha sempre accompagnato Kovacs – come monito o come lezione – attraverso le sue peregrinazioni cosmiche: Quellcrist Falconer.

Quellcrist è una figura letteraria a tutto tondo, sospesa tra il disinganno e la rabbia, che alimenta con l’aura mitologica delle sue sentenze lapidarie la speranza e l’ansia di riscatto dei personaggi che le si muovono attorno. Morgan ci offre finalmente uno spaccato del suo passato, una lucida rievocazione del movimento rivoluzionario da lei ispirato e del suo sostrato politico. Così come per la rivoluzione, è lei il motore del meccanismo narrativo, l’attrattore che domina le traiettorie esistenziali degli altri personaggi, Kovacs incluso. Nessuno è immune al suo magnetismo, nessuno può resistere al campo memetico che s’irradia dalla sua icona ormai assurta a simbolo del movimento che ha contribuito a plasmare: il quellismo.

Anche lo scontro tra Kovacs e il suo doppio scivola in secondo piano di fronte al conflitto che si gioca a livello più alto, mettendo in discussione la sorte di una intera società. La storia personale di Kovacs e quella globale di Harlan’s World scorrono parallele, ma entrambe hanno un comune punto di svolta. Il ruolo chiave in questo snodo è rappresentato da Quellcrist Falconer. È lei a stimolare la riflessione di Kovacs sul mondo e sulla storia, in un percorso critico che abbiamo visto cominciare fin dal suo approdo sulla Terra. E adesso che finalmente gli si presenta l’opportunità di dialogare direttamente con lei, o con il simulacro che resta di lei ma in cui tutti si convincono di vedere l’antico comandante (ovvero l’incarnazione di un ideale astratto), Kovacs non se la lascia scappare.

Il dialogo tra i due sembra poter funzionare solo a un livello viscerale, istintivo, animale, quando a essere coinvolte sono le funzioni primarie. È Kovacs stesso a richiamare involontariamente in superficie la coscienza di Quellcrist dal suo rifugio elettronico nella testa di Sylvie Oshima, leader di una cellula di disAt. Una rivoluzionaria, dentro una mercenaria. Un gioco di scatole cinesi come si rivela essere anche l’arma definitiva dell’offensiva quellista, il cosiddetto Protocollo Qualgrist che porta Kovacs a interrogarsi sulla legittimità dei metodi e sull’importanza della libertà di scelta. La questione non è più se il fine giustifichi i mezzi, ma resta comunque machiavellica: preso atto della narcotizzazione delle coscienze operata da secoli di egemonia e controllo, ha ancora senso anteporre l’ideale del libero arbitrio a un sogno di libertà collettiva?

Morgan si guarda bene dall’imporre una risposta. Tutta la sua opera, dopotutto, è una splendida costruzione letteraria che serve ad alimentare il dubbio, spingendo il lettore a porsi delle domande dai paralleli che emergono lampanti tra l’universo futuro di Kovacs e il nostro mondo attuale. Ma offre una possibile via di fuga dall’empasse, suggerendo che forse uno dei modi per superare la questione è quello di superare una volta per tutte i retaggi della condizione umana. Quello che potrebbe significare la transizione, tuttavia, resta avvolto in un mistero che non è di certo immune a rischi e minacce, che potrebbe rivelarsi addirittura peggiori.