Sebbene possa intendersi ancora come gioco di ruolo, The Elder Scrolls IV: Oblivion non è meramente questo. Con l’arrivo del quarto volume interattivo, la colossale saga fantasy di Bethesda Softworks evidenzia i sintomi di un grande cambiamento maturato in seno all’odierno scenario videoludico. Sotto quella che potrebbe sembrare una spudorata corte al pubblico occasionale, in netta contrapposizione con il passato intransigente della serie e lo zoccolo duro dei suoi fan, si nasconde però la più chiara evoluzione di The Elder Scrolls e del suo concepire il gioco di ruolo in generale. Che, lasciando per un attimo in disparte le derive contabili, si interessa maggiormente del contenitore di storie. Oblivion lavora molto per non appesantire l’esperienza dell’appassionato che stacca un biglietto per Tamriel, il regno di mostri, elfi e cavalieri che fa da sfondo alla saga, ambientata in un medioevo immaginario. Alcuni direbbero che lavora troppo, tanto che, per crearne di nuovi, vengono meno determinati stimoli - legati al sistema di crescita del personaggio che livella in automatico la sfida, ad esempio. Diversamente da Morrowind, in Oblivion l’evoluzione si palesa infatti con un distacco dai canoni tipici del genere. Il gioco di ruolo si fa più avventura o viceversa. Qualcosa guadagna in profondità, qualcos’altro perde. E, complice un’esposizione della trama principale più sobria, sul divano si possono tenere pure i popcorn. L’esperimento ha certo i suoi limiti, a cominciare dall’eccessivo accento sull’azione, per proseguire con una relazione – cui si accennava prima - non pienamente felice tra l’avatar del giocatore, il mondo di gioco e le relative creature. The Elder Scrolls IV segue in tal senso un sentiero battuto in precedenza da Deus Ex 2, senza tuttavia le derive eccessivamente semplicistiche di quest’ultimo.

Che ci si trovi di fronte a un capitolo dell’epopea Bethesda ce ne si accorge subito, al primo sotterraneo, quello dove determinare le caratteristiche di partenza del proprio alter ego, attraverso un’intervista dal sapore tradizionale per i conoscitori della saga. L’aspetto fisico, il nome, la razza e il genere del personaggio si scelgono invece appena lasciato il menu delle opzioni per imbarcarsi nell’avventura. Il programma approntato dagli sviluppatori è eccezionale per versatilità e facilità d’uso. Poi, nelle segrete della più cupa prigione della provincia imperiale di Cyrodiil, inizia la vicenda che vi vede sconosciuti protagonisti. In punto di morte, è l’imperatore a suggerirvi il destino: salvare Tamriel dal maleficio che la vuole invasa dalle empie belve di Oblivion, l’inferno di The Elder Scrolls. Per riuscirci, la missione sarà di rintracciare l’erede al trono prima che il regno cada nel caos.

Pur conservando la facoltà di optare per un’inquadratura alle spalle, in terza persona, Oblivion è un titolo studiato per essere fruito in soggettiva. Gli sforzi compiuti da Bethesda per rendere tale prospettiva ancora più coinvolgente si sposano con la rinnovata verve dei combattimenti. Più dinamici che nelle precedenti iterazioni, mirano a restituire la fisicità degli impatti tra le spade. Spade, pugnali e mazze ferrate sono il fulcro della lotta. Esistono armi da lancio, ma lame e pesanti arnesi da mischia si mantengono enormemente più efficaci nella maggioranza delle situazioni. Altro discorso per la magia, una delle strade lungo cui è possibile far incamminare il proprio avatar. Avere qualche amico tra gli elementi viene comodo in molte circostanze ed è un gran bel vedere, grazie al motore grafico sprecone di Oblivion.

Non privo di artifici e difettucci da fiato corto per i calcoli che è chiamato di continuo a elaborare (i quali si traducono in una fluidità ballerina e oggetti dall’abitudine all’apparizione improvvisa), disegna un mondo che rapisce per la vastità dei paesaggi, la quantità dei personaggi, la ricchezza delle architetture. Non ci sono livelli di gioco, ma un unico grande mondo da esplorare in lungo e in largo, cercando la propria via, le proprie alleanze, le proprie inclinazioni. I propri gradi di cognizione di The Elder Scrolls IV: sterminato per chi voglia scoprire ogni angolo di codice scritto per questo kolossal digitale, stracolmo di scorci, di zone che nessuno obbliga a indagare, eppure esistono lo stesso, per la gioia di quei pochi che avranno voglia di perdervisi.

Ecco l’intervallo che si frappone tra Oblivion e Morrowind. Dove nella precedente opera Bethesda si era costretti a vivere nel gioco, a calarvisi lentamente fino quasi ad annegarci dentro, un po’ come fosse un tomo che richiedeva assoluta dedizione tanto l’universo era vasto e i vincoli assenti, con Oblivion il passaggio è più spettacolare, l’idea più cinematografica, le strade più evidenti. Si può essere, cioè, più spettatori. E le logiche allora cambiano, assieme ai pesi che descrivono la figura dello spettatore partecipante. Nel complesso, un’infinità di dettagli che collaborano a costituire un’esperienza a tratti più voyeuristica che ruolistica, senza necessariamente cancellare l’illusione di una costante scelta e la possibilità di vivere una fantastica avventura oltre i suoi stessi confini. Anzi: una, nessuna, centomila. Da una decina di anni è questa la magia di The Elder Scrolls, che in Oblivion procede con la stesura formale del suo racconto di luoghi, tempi e persone aperto all'interpretazione del giocatore. Dimostrandosi, in definitiva e nonostante le volte in cui i puristi arricceranno il naso, il primo vero classico per Xbox 360. La cosa più grossa che girerà su console per diverse stagioni.