Una delle grandi qualità che ha da sempre contribuito a costruire il successo di Ronald D. Moore è quella di riuscire a spiazzare lo spettatore, ma con questo Virtuality raggiunge un’apice di schizofrenia narrativa che raramente avevamo visto nelle sue produzioni precedenti.

Quello che ci troviamo di fronte è un pilot letteralmente scisso in due sezioni: la prima dove in una sorta di provocazione stilistica la narrazione si svolge come un vero e proprio reality show con tutti i noiosi stereotipi del caso, in grado di inorridire, disturbare e tediare lo spettatore fino allo sfinimento.

Poi, per coloro che hanno resistito fino al quarantacinquesimo minuto senza cedere alla tentazione di premere il bottone del telecomando (a giudicare dai rating di ascolto davvero pochi), il supplizio ha termine e lascia il posto a una grande storia di fantascienza dai possibili risvolti davvero interessanti per un’eventuale, ma improbabile, serie.

La storia si svolge approssimativamente nel 2050 quando viene inviata la nave spaziale Phaeton in un viaggio di esplorazione di durata decennale verso il sistema stellare Eridiani Epsilon, una spedizione che si rivela probabilmente l’ultima speranza per la terra, precipitata nel baratro di un cataclisma climatico.

Per sovvenzionare la spedizione l’intera operazione è stata impostata come un gigantesco reality show.  I dodici astronauti della Phaeton infatti diventano protagonisti di uno dei tanti reality che ben conosciamo con tanto di confessionale, montaggi e situazioni di tensione create per ottenere audience.  Gli astronauti diventano quindi protagonisti e attori di una fiction che si interseca con la realtà.

A tutto questo si aggiunge un altro livello di finzione generato dai moduli di simulazione di realtà virtuale realizzati per permettere all’equipaggio di poter sviluppare le proprie fantasie o al limite anche per ottenere privacy nel corso dell’interminabile viaggio interstellare.  Questo ulteriore livello diventa progressivamente il subconscio della storia e dell’equipaggio, un subconscio in grado di ferire o uccidere che diventa il mistero principale della storia.

Al timone dell’operazione Virtuality, oltre al già citato Ronald D. Moore, c’è anche quella vecchia volpe di Michael Taylor, che con Moore ha scritto pagine memorabili di Battlestar Galactica e ha un passato importante in The Dead Zone e Star Trek.  A questi va aggiunto anche il regista Peter Berg, che ha già dato buona prova di sé con Hancock e Friday Night Lights e che in questo Virtuality dà il meglio di sé riuscendo a interpretare il tessuto onirico della narrazione in maniera talvolta lisergica.

Per quanto riguarda il cast, ritroviamo quel Nicholaj Coster-Waldau già protagonista del serial tv New Amsterdam, che qui interpreta in maniera efficace il ruolo del comandante Pike.

Un altro volto noto è quello di Clea DuVall, che i fan di Heroes ricorderanno nei panni dell’agente dell’FBI Audrey Hanson. 

In generale comunque la qualità degli attori è di buon livello e personalmente ho gradito particolarmente quella dei due attori londinesi James D’Arcy e Ritchie Coster nel ruolo rispettivamente dello psichiatra di bordo e del vice-comandante.

Sulla carta leggendo i nomi, analizzando il pedigree e l’impianto, la struttura del cast è di buona qualità a ogni livello, e allora la domanda che sorge spontanea è: se tutti gli ingredienti sono al loro posto, cosa è che non fa decollare e funzionare questo Virtuality?

Probabilmente la risposta risiede tutta nella provocazione stilistica che Moore e soci hanno voluto fare, rappresentando in maniera estrema gli stereotipi del reality show, condannando così di fatto l’intero progetto a un oblio probabilmente immeritato.  Credo infatti che quello che ci troviamo di fronte nei primi quarantacinque minuti di reality show è un maldestro tentativo di introspezione psicologica che di fatto  non approfondisce proprio nulla, ma esplora soltanto la superficie dei personaggi.  In gergo calcistico, sarebbe proprio il caso di dire: un clamoroso autogol.

Poi, sorprendentemente, quando ogni speranza di vedere qualcosa di decente svanisce anche nel più accanito dei fan di Moore, sulle note della splendida Alive Alone dei Chemical Brothers, non solo la Phaeton si propelle verso lo spazio profondo, ma decolla anche l’intero pilot, che da lì alla fine produrrà una girandola di emozioni degne dei migliori lavori di Moore.

Purtroppo le probabilità che Virtuality si trasformi in una serie sono quasi zero, quindi non sapremo mai se questo progetto sarebbe divenuto o meno un pilastro della fantascienza della decade a venire.  L’impressione che ho intimamente però è che gli elementi ci fossero tutti, e che il mistero a lungo termine generato da questa sceneggiatura ne avesse il potenziale, un potenziale a mio avviso estremamente superiore a quello di Caprica.  Assistiamo quindi impotenti al suicidio di un’ottima idea di Moore operato dall’autore stesso.