Per niente facile il compito che si è prefisso Peter Jackson, nel proseguire la sua carriera di regista confrontandosi con un mito del cinema come King Kong. Oltretutto in un periodo nel quale, verrebbe da dire per scarsezza di idee e coraggio, Hollywood ad ogni cambio di generazione rifà se stessa, propinandoci remake di tutto, film spesso inutili e insulsi, realizzati solo perché sono cambiate le tecnologie grazie alle quali si possono fare gli effetti speciali. Nel caso specifico nel 1933 il gorillone al centro di questa storia era un piccolo pupazzo animato a passo uno; nel 1976 nel remake di John Guillermin prodotto da De Laurentiis era un attore truccato (il gigantesco Kong costruito da Carlo Rambaldi e tanto pubblicizzato per la verità a mala pena si muoveva ed è stato praticamente quasi eliminato in fase di montaggio). Jackson, essendo ormai in epoca post Jurassic Park sguinzaglia i suoi tecnici della Weta Digital, oltretutto potendo contare su un supervisore senior degli effetti digitali come Joe Letteri, che ha lavorato in quel film capostipite che ha rivoluzionato il mondo dei mostri cinematografici. Ma il suo amore per il soggetto e il suo rispetto per il film originale appaiono essere del tutto genuini e veri.

L’inizio nella New York della grande depressione è già dall’ambientazione un tributo al King Kong di Cooper e Schoedsack. Che Jackson non sia uno di quei dozzinali registi che spesso girano i remake per conto di qualche studio lo si era già capito da anni. Ha la classe del grande regista e basta vedere con che delicatezza gestisce l’avvistamento della bella Ann (Naomi Watts) da parte del cinematografaro sull’orlo della bancarotta Denham (Jack Black). Il viaggio in nave verso l’isola misteriosa poteva forse durare qualche minuto in meno, ma una volta avvicinatisi a destinazione il ritmo del film s’impenna bruscamente. La tribù che sopravvive in questo ambiente a dir poco inospitale ha ben poco di umano ed anche il resto delle creature che vivono sull’infernale isola si rivelano essere un avanzo di preistoria sopravvissuto sino ai giorni nostri. Tutta la parte avventurosa dell’inseguimento nella giungla dell’attrice rapita da Kong è vorticosa e spesso a rischio overdose d’incredibilità, con qualche imbarazzate scivolata nell’apertamente assurdo, come quando la donna sopravvive nel pugno del mostro anche quando questi combatte contro dinosauri di ogni razza e dimensione, o come quando i membri dell’equipaggio che si sono lanciati all’inseguimento fuggono in un canalone correndo tra le gambe di bestioni enormi senza esserne schiacciati, riportando danni e perdite minime. In un paio di strapiombi vorticosi hanno luogo cose opposte: in uno precipitano Kong, Ann e tre dinosauri e siamo quasi in atmosfera da cartoon quando un T-Rex rimasto impigliato nelle liane penzolanti cerca di addentare l’altrettanto penzolante e succulenta bionda. Per contro Jackson pare invece ricordarsi dei suoi trascorsi orroriani nella sequenza del fondo del precipizio dove sono finiti gli uomini dopo che Kong li ha buttati giù dal tronco che stavano attraversando. Attaccati da tutta una vasta gamma di schifiltosi insetti giganti e varie creature altamente ributtanti anche qui c’è chi si salva a scapito di ogni minimo sindacale di plausibilità. Altrettanto assurdo il modo in cui Jack (Adrien Brody) fa fuggire Ann dalle mani dalle mani del suo rapitore, scendendo da una scogliere niente meno che aggrappati alla zampa di un pipistrellazzo sovradimensionato. “Il Signore degli Anelli mi ha insegnato che più la vicenda è fantastica più il film deve essere verosimile” ha dichiarato il regista, ma evidentemente questo buon proposito per alcune sequenze deve essergli rimasto intrappolato nella MdP. Catturato il “mostro” e portato a New York il resto della storia è estremamente fedele all'originale. Finale in cima all’Empire State Building tecnicamente strepitoso, con sfoggio di angoli di ripresa che mettono a dura prova la resistenza alle vertigini dello spettatore, appeso lassù a centinaia di metri d’altezza insieme ad Ann e Kong.

Aspetti incredibili a parte si può certamente affermare che il King Kong di Peter Jackson è davvero un buon film d’avventura e fantasia. La principale innovazione d’approccio fatta rispetto alle due precedenti versioni riguarda l’aver rimosso il sottotesto velatamente sessuale dell’attrazione che Kong poteva avere per la donna. Cosa in fin dei conti sensata dal momento che è logico supporre che per un gorilla una donna umana sia quantomeno troppo carente di pelo per poterla trovare attraente. Kong e Ann sono esseri viventi appartenenti a due specie diverse che in circostanze straordinarie sviluppano solo quella che si può definire una singolare amicizia, in base alla quale lui cerca di proteggerla quando sono sull’isola e lei cerca di proteggere lui, non riuscendoci, quando sono a New York. Nei loro scambi di sguardi non ci sono ammiccamenti o allusioni, solo il manifestarsi innocente e disinteressato della vera amicizia. Sono i passaggi più emozionanti di questa favole triste, nei quali il regista ancora una volta si esibisce in quei fenomenali momenti di rallentamento progressivo della narrazione arrivando sin quasi a sospenderla nel tempo. Per il pubblico è una sensazione che può essere descritta come quella che si prova salendo sulle montagne russe arrivando in cima alla salita e rimanendo per un attimo come sospesi in aria, prima che cominci la vorticosa discesa, nel film l’azione scatenata. Jackson costruisce magnificamente lo stesso tipo di dinamica e in essa racchiude il meglio del suo modo di fare cinema. Anche in un film un po’ disomogeneo e non perfetto, ma certamente di grande impatto spettacolare, come questo.