C'era una volta il cinema noir di cui Mulholland drive è evidentemente l'erede postmoderno. Un film che per un'ora e quaranta è addirittura esaltante e che - ad un certo punto - sembra sfuggire di mano al suo regista in un calcolato delirio onirico di onnipotenza autoriale. La storia - in apparenza - è quella di una donna senza memoria in seguito ad un incidente che, per caso, finisce per conoscere un'aspirante attrice. Quest'ultima cerca di aiutarla a venire a capo del suo passato in un intricatissimo pasticcio hollywoodiano fatto di film che si vorrebbero fare e di attrici che non si dovrebbero scegliere. Dopo Una storia vera Lynch sceglie un'altra volta un percorso irto di ostacoli, di rimandi e di citazioni difficilmente decifrabili e più che mai aperti all'interpretazione dello spettatore. Pur essendo una storia di cinema nel cinema Mulholland drive che prende nome dal viale di Hollywood dove si verifica l'incidente, è anche un'immagine visionaria del cinema e dei suoi "inghippi". Una pellicola complessa in cui Lynch si concentra sulla bellezza carismatica delle due protagoniste per realizzare un gioco di specchi inquietante fatto di menzogne, ambiguità, paura e lussuria. Una rincorsa di storie e situazioni e personaggi enigmatici che si stagliano in un caleidoscopio a momenti esaltante, in altri perfino tedioso dove tutto non è mai davvero come appare e dove ogni cosa può rivelarsi per essere una proiezione di qualcosa e di qualcun altro. Mulholland drive nasce dalla stessa visione dell'America e del cinema anti-glamour che percorre l'estetica di tanti autori che vanno da Neil Labute a John Waters. Il tocco magico di Lynch, sulla stessa sintonia delle atmosfere agghiaccianti di X files diventa il marchio di un cinema in grado di andare oltre, complesso e artificioso, dove nulla è lasciato per scontato e dove solo il singolo spettatore può azzardare una personalissima e quantomai fallace interpretazione.