Questo è il mio fucile. Ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio.

Il mio fucile è il mio migliore amico. È la mia vita. Devo dominarlo come domino la mia vita.

Senza di me è inutile; senza il mio fucile sono inutile. Con lui devo sparare bene, meglio del nemico che tenta di uccidermi. Devo colpirlo prima che lui colpisca me. Lo farò…

Il mio fucile e io sappiamo che ciò che conta in questa guerra non sono le cartucce che spariamo, né il rumore degli spari, e tanto meno il fumo che produciamo. Sono i colpi a segno quelli che contano. Colpiremo…

Il mio fucile è umano, come me, poiché è la mia vita. Pertanto, imparerò a conoscerlo come un fratello. Imparerò i suoi punti deboli, i suoi punti di forza, le sue componenti, i suoi accessori, le sue tacche di mira e la sua canna. Lo proteggerò anche dalle intemperie e da ciò che potrebbe danneggiarlo, come farei con le mie gambe, le mie braccia, gli occhi e il cuore. Terrò il mio fucile pulito e in ordine. Diverremo una sola cosa. Lo diverremo…

Giuro su questo Credo davanti a Dio. Io e il mio fucile siamo i difensori del mio paese, i dominatori del nemico, i salvatori della vita. E così sia, finché la vittoria sia della Federazione, e non ci siano più nemici, ma pace.

(Preghiera dei Marines dello Spazio)

Marines, pronti allo sbarco!

Una forte esplosione, rumore di metallo che si spezza e aria che penetra nello scafo. La Terza Squadra al completo sparisce attraverso lo squarcio, risucchiata, sparata verso la morte. Stiamo precipitando, devono aver colpito il nostro trasporto, cazzo!

Il pilota sta cercando di mantenere l’assetto, ma una forte esplosione anticipa il rollio; ormai il mezzo è fuori controllo. Posso sentire ciò che sta succedendo fuori da questa stanza buia; accompagno la manovra con la mente, sento il terreno che si avvicina. Sempre più.

Ormai non c’è nulla da fare, il nostro assalto è fallito!

A meno che… ecco, il pilota deve aver capito che la nostra unica possibilità è affidata al sistema di emergenza delle stive di carico. Sento la forte accelerazione, ci ha sganciati e stiamo precipitando. L’urto contro il terreno è anticipato dalle bolle a repulsione: gonfiandosi, avvolgono la struttura che ci ospita. Il sistema di emergenza ci risparmia la vita.

Sgancio le cinture, impugno la mia arma e mi dirigo al portello di carico laterale. I ragazzi si stanno schierando ai miei lati; schiaccio il pulsante di sblocco, nelle orecchie il rumore delle cariche esplosive che scagliano lontano la porta di plastiacciaio. Non fa in tempo a toccare terra che la squadra è già schierata attorno alla nave, in attesa di un mio segnale. Devo prima capire dove siamo, quali e quante squadre abbiamo ai fianchi, dove si trova il nemico.

Ovviamente i mostri non hanno nessuna intenzione di aiutarmi e sulla nostra posizione arrivano i primi colpi, squarciando e decimando gli uomini.

Una seconda stiva, precipitata a poca distanza da noi, viene centrata in pieno; deflagrando sparge frammenti di corazza e uomini per chilometri.

Attivo il comunicatore a microonde e ordino agli uomini rimasti di lasciare la zona.

Siamo sulla loro linea di tiro, l’area si sta trasformando in un cimitero a cielo aperto.

Se tu sei a tiro, lo è anche il nemico.

Mentre ci schieriamo, prendo contatto con le navi in quota e chiedo un po’ di copertura. Dopo qualche istante l’artiglieria nemica smette di colpirci. Ci muoviamo in fretta, raccogliamo i sopravvissuti dei vari reparti, per poi attestarci al margine della nostra zona d’atterraggio.

Evitiamo di tenere lo sguardo a terra a lungo, inevitabilmente pestiamo i corpi dei nostri compagni, ma ci prepariamo a vendicarli con tutte le nostre forze.

Un forte vento alza nuvole di polvere, sabbia che penetra negli occhi si fa strada nella gola, ferisce il viso. Abbasso la visiera del casco e attivo l’HUD che mi fornisce informazioni sugli uomini e sul nemico.

I cinque pianeti del Sistema Dedrolus sono il nostro obiettivo. Ne conquistiamo uno e subito lo perdiamo. Questi mostri sono intelligenti, troppo per i miei gusti. Ma noi siamo Marines, andiamo dove c’è da combattere, andiamo dove c’è una missione da compiere. Per la Federazione.

Di fronte a noi si staglia una piccola costruzione, una cupola che emerge per pochi metri dal terreno insolitamente uniforme. L’erba è soffice sotto i nostri piedi, muovo velocemente la mano sinistra segnalando agli uomini di allargare la formazione, attivo i sensori passivi cercando segnali che non rilevo, valutando una possibile manovra d’attacco tra i suggerimenti del computer della mia armatura.

Del sangue viene gettato sulla mia visiera, il soldato al mio fianco si abbatte al suolo colpito mortalmente alla testa. I suoi resti m’imbrattano la corazza, il suo cranio è esploso sotto il fuoco nemico. Automaticamente, senza attendere ordini, la squadra si getta in avanti. Solo chi ha degli appigli tattici consistenti si ferma e inizia a sparare offrendo copertura ai compagni che avanzano. Corro più velocemente che posso, poi sulla sinistra scorgo una buca profonda occultata dall’erba alta e mi ci fiondo immediatamente. Dopo qualche istante un’altra figura salta dentro la mia nuova postazione, per poco non la fulmino… poi riconosco una delle nuove reclute sopravvissute allo sbarco. Cerco di avvicinarmi lentamente al ciglio della buca, puntando l’arma verso la costruzione, mentre i rilevatori aggiornano la mappa tattica, segnalandomi la posizione dei miei uomini.

Terza Compagine, Terzo Fuoco. Il miglior reparto della Federazione.

Come cazzo tieni questo fucile?

- Da dove vieni soldato?

- Dalla Luna, Signore.

- Dalla Luna? Conosco solo due cose che vengono dalla Luna…

Quel Sergente Istruttore si era rivelato subito un simpaticone. Fu l’ultima volta che sorrisi. Avevo firmato per viaggiare a bordo di enormi vascelli, combattere contro i mostri che minacciavano la razza umana, dare un valore alla mia vita, non pensavo che avrei subìto maltrattamenti al Centro Addestramento, né che avrebbero collegato il mio corpo a una panca piena di sensori e tubi. Non so se odiavo di più il mio Sergente o il sistema d’istruzione automatico. Beh, almeno con l’istruttore si sparava sul serio, come aveva imparato un mio compagno di corso, ora costretto su una sedia a levitazione e assegnato al magazzino del Centro.

Due mesi. Due lunghi mesi di addestramento. Non ricordo molto di quel periodo, forse non voglio ricordare, di certo abbiamo sputato sangue, maledetto i nostri superiori, progettato ogni tipo di vendetta. Ma se siamo ancora in vita, lo dobbiamo aia loro. Riconosco immediatamente una recluta addestrata dal Sergente Istruttore Marcus, mi basta osservare il modo in cui cammina, come tiene il fucile, come spara contro i mostri. Siamo macchine ben oliate, armi cariche e pronte a uccidere, androidi umani costruiti per eliminare una minaccia, tutti condizionati e ben addestrati, degni del Corpo dei Marines. O di morire per esso.

- Bravo ragazzo. Diventerai un Ufficiale, me lo sento!

Durante il corso mi ero comportato bene, diventando Capo Squadra. E Marcus, il Sergente Marcus, aveva indovinato. Ero diventato Ufficiale… ma a quale prezzo.

Nel corso dell’addestramento si erano dimenticati di dirci che l’aspettativa di vita di un soldato era di sei mesi, tre per un graduato, due per un Ufficiale. In compenso guadagnavamo un bel po’ di crediti, molti più di quanti riuscivamo a spenderne a bordo delle navi, le lussuose case viaggianti che ci trasportavano da un angolo all’altro della galassia.

Ecco… sulla paga si erano soffermati a lungo, al centro reclutamento. Sugli altri aspetti della vita di un soldato, molto meno.

Il Sergente Istruttore Marcus all’inizio del corso aveva al suo comando centoventi reclute, dopo due mesi eravamo rimasti un centinaio. In sedici si erano ritirati, quattro avevano perso la vita durante l’addestramento.

Muoversi, muoversi!

Niente. Da questa posizione non si vede niente, eppure qualcuno ha sparato sui miei uomini, devono essersi appostati all’interno della costruzione.

Non possiamo star fermi in queste buche, seleziono la frequenza della Prima Squadra, schierata a sinistra e chiedo fuoco di copertura. Alla Quinta, posizionata sul fianco destro, ordino un movimento lento per attirare il tiro dei mostri. La Quarta ci darà copertura con le granate, mentre la Seconda attenderà di capire come sono disposti i nemici, poi avanzerà di conseguenza; se possibile, centralmente. Terminate le veloci comunicazioni ai capi squadra, attivo la frequenza globale, dando il via all’azione.

I veterani sono con me da un anno. Con loro ho combattuto diverse, troppe, battaglie, ma tra le squadre ci sono molte reclute, nella fanteria le perdite sono sempre pesanti. Le prime esplosioni raggiungono l’obiettivo, una salva di fumogeni copre il movimento a destra, su cui si concentra il fuoco nemico, dando la possibilità al nostro attacco centrale di iniziare il vero affondo. Devo attendere, non posso buttarmi nella mischia come vorrei, il mio grado me lo impedisce. Aspetto che le squadre raggiungano il primo punto avanzato, dopo di che mi sposto, seguito a pochi metri dal mio staff.

Il meraviglioso manto erboso che accarezzava le nostre calzature lascia spazio a una distesa bianca, che circonda la bassa costruzione a cupola. Cede sotto il peso della mia armatura; ogni passo produce un sinistro rumore di morte. Abbasso per qualche istante lo sguardo, poi gli occhi tornano a collimare l’arma, pronta a eliminare chi osa passare nel centro del mirino. Sono gesti automatici, occorrono alcuni istanti prima che il cervello elabori ciò che ho visto; non devo distrarmi, ne va della mia pelle. M’inginocchio e continuo a puntare l’arma mentre, soffermando lo sguardo, osservo ancora una volta il terreno sotto di noi. Raccolgo del terriccio che lascio scivolare tra le dita, riconoscendo alcuni frammenti che rimangono in superficie. Quei mostri hanno steso le ossa dei nostri uomini su quella pianura. Come monito, è evidente. E purtroppo funziona.

Alcuni uomini fanno la mia stessa, triste scoperta. Osservo un soldato che alza un teschio umano da terra, distraendosi. Un razzo gli stacca la testa di netto e il suo corpo si affloscia inerte. Lo sgomento è palpabile, l’avanzata rallenta, gli uomini tentennano. La disfatta è imminente.

- Muoversi, muoversi!

Urlo al comunicatore, alzandomi e iniziando a correre verso il nemico. I veterani spronano gli ultimi arrivati, calpestando i resti degli uomini che li hanno preceduti. Il fuoco nemico aumenta; chiedo supporto all’artiglieria, non posso aspettare oltre. Continuo a perdere uomini mentre i colpi si fanno sempre più precisi, troppo vicini alla mia squadra.

Un’esplosione mi getta a terra, assecondo la caduta rotolando fino a un piccolo avvallamento, unica difesa in quella radura.

Addio… Terra.

Come vivere su un pianeta morto?

Ormai avevo lasciato la Terra da circa un anno, pertanto amici e familiari erano morti da qualcosa come quaranta, settanta, cent’anni. Non riuscivo a tenere il conto, la relatività era una legge fisica che non riuscivo a comprendere del tutto. Inquinamento e guerre, sfruttamento delle risorse planetarie e dei paesi poveri, inverno nucleare… Avevamo rovinato il nostro mondo, potevamo vivere solo all’interno delle cupole che ricoprivano e proteggevano le città, unica alternativa trovare un nuovo mondo da popolare. Da invadere.

Ci spiace mostri, abbiamo bisogno della vostra aria, della vostra terra, del vostro pianeta. Ci spiace mostri, la Federazione ha deciso di cancellare la vostra razza dall’universo! Mi spiace mostri, Sono qui per prendervi a calci in culo…

Apri gli occhi. O muori…

Un’esplosione sul fianco destro, seguita immediatamente da una seconda deflagrazione, mi riporta al presente. Osservo i corpi dei miei soldati smembrati al suolo, la corsa dei loro compagni, indecisi tra l’aiutare gli amici ormai senza speranza e la necessità di trovare un riparo. Tutto questo dura pochi istanti, durante i quali cerco di capire cosa stia succedendo, di indovinare la posizione del nemico, di scegliere l’appiglio tattico che possa offrirmi protezione e che allo stesso tempo mi permetta di tenere sott’occhio l’area. Decido di rotolare sul fianco per sottrarmi al tiro di eventuali cecchini e mi fermo a pochi centimetri da un sottile filo di materiale plastico, invisibile sul terreno che s’interra sotto un sasso, probabilmente collegato a qualche ordigno.

- Mine! Mine! – avviso gli uomini.

L’allarme si diffonde in tutte le frequenze, ma evidentemente non basta: una nuova esplosione riduce ulteriormente i soldati al mio comando.

Gli scanner non hanno segnalato nulla, questi mostri sono molto furbi, troppo per i miei gusti. Non provo a disinnescare la trappola, probabilmente è ciò che vogliono. Segnalo la sua posizione sulla mappa in dotazione, mentre osservo gli aggiornamenti sul resto del reparto. Sullo schermo appaiono centinaia di punti gialli: quest’area è disseminata di mine! Devo trovare un altro passaggio, ma ormai ho schierato gli uomini su questo fronte; non mi rimane altro da fare che chiedere l’intervento dei carri, aprirmi la strada con il loro aiuto. Per fortuna un plotone di M1 ci raggiunge ad alta velocità, invio al loro comandante le informazioni salvate sul mio terminale. Pochi minuti e il varco è aperto. Ora che possiamo sfruttare la loro copertura muovo gli uomini al centro della formazione, conquistando con pochissime perdite il nostro obiettivo.

Gli M1 si posizionano attorno alla cupola, lascio la quarta squadra in superficie, mentre seguo il resto del reparto all’interno della struttura.

L’ambiente, di pianta circolare, è particolarmente umido e buio. Accendo l’infrarosso e lo regolo al minimo. Lungo il perimetro ci sono una decina di aperture, grandi tunnel che scendono in profondità. Un brivido mi scorre lungo la schiena, una sorta di avvertimento, come se i sensori dell’armatura avessero rilevato qualcosa.

- Quale strada, Signore?

Il Primo Sergente ha fatto schierare degli uomini di guardia a ogni entrata, ora sta a me scegliere quale percorso seguire. Lancio una scansione ma i tunnel sono troppo lunghi, non ottengo nessuna informazione utile.

- A destra, Sergente. – Nel dubbio vado sempre a destra, finora mi è sempre andata bene. Finora.

- Muoversi, muoversi! – urla il sottufficiale.

In testa dispone due ragazze della Prima Squadra, ottime scout, eccellenti soldati. Ci spostiamo in fila molto velocemente, divisi in due team a ridosso delle pareti. Manteniamo una distanza funzionale che in caso di bisogno permetta agli uomini di aiutarsi e allo stesso tempo eviti di offrire un unico bersaglio al nemico.

Non stiamo giocando.

Siamo all’esame finale del Corso. Ogni Compagine difende una bandiera elettronica, anche i nostri istruttori sono messi alla prova. Hanno trasformato dei semplici civili in autentiche macchine da guerra: questo era il loro scopo. Ci stiamo avvicinando alla base rossa, l’obiettivo finale, hanno posizionato la bandiera al centro di una sala in fondo a un tunnel buio. Procediamo in fila indiana, i sensori non rilevano pericoli, se conquistiamo anche questa base vinceremo la prova. Arriviamo nei pressi dell’obiettivo, quattro uomini si posizionano in difesa, pronti a coprire il resto dei ragazzi. Avanziamo lentamente e stiamo per attivare il congegno elettronico, quando scoppia il finimondo.

Non ricordo esattamente ciò che è successo, ma sono riusciti a eliminare tutta la nostra Compagine.

Maledetti mostri.

Tutto come quella volta. Il lungo tunnel, la sala enorme… ci stavano preparando ad attaccare le loro tane, ecco per cosa ci hanno addestrato, ora ne sono consapevole. E adesso so cosa sta per accadere: è una trappola, non è possibile scappare da un posto del genere. Abbiamo perso migliaia di soldati in questa zona, i corpi dei nostri compagni sono stesi a terra come monito, eppure i nostri comandanti persistono nel mandarci al massacro. Non hanno imparato nulla dai loro errori; oppure non vogliono imparare.

- Sergente! – ordino.

- Signore?

Appare sempre come un fantasma, quasi si aspettasse la mia chiamata.

- Usciamo da qui… ora!

Mi osserva per qualche secondo, poi annuisce lentamente. È addestrato a obbedire senza far domande e mi conosce bene, abbiamo molte campagne alle spalle… Si prepara a far muovere gli uomini. è proprio in quel momento che cominciano a sbucare dal terreno e a spararci con le loro armi al plasma: una carneficina. Cerchiamo di ripiegare, ma un’orda nera continua a seguirci: non vogliono superstiti.

Come sempre.

Vediamo la luce, gli uomini lasciati indietro cercano di offrirci copertura, ma ormai sono su di noi, straziano i nostri corpi.

Tutto diventa nero.

Recupero, recupero!

Mi sveglio urlando dal dolore, un medico è sopra di me, in mano regge qualcosa. Credo sia il mio braccio destro. Vengo caricato a bordo di un mezzo che si alza in volo con i portelloni aperti. Osservo la scena sottostante, i mostri che combattono e smembrano i miei uomini. Un piccolo gruppo, a colpi di fucile, fa indietreggiare due bestie verso la cupola, sigilla tutto con un lancio di granate, poi si volta e passa a eliminare quelli rimasti all’aperto. Sono bravi i miei ragazzi, uno zoppica vistosamente, ma non rimane indietro. In momenti del genere il fuoco combinato di squadra non deve diminuire, se si vuole sopravvivere.

Il medico m’inietta qualcosa che mi fa star meglio, rilassa la mia mente. E il mio corpo.

Questo è il mio fucile.

Sono passati tre mesi (tempo locale) da quando sono stato ferito. Mi hanno rappezzato, riattaccato il braccio, rinforzato lo spirito, cancellato parzialmente la memoria. Almeno credo.

Sono pronto per tornare in quella cupola, lo voglio con tutto il mio cuore, anche se la mente mi grida il suo terrore. Ora ricordo: ricordo tutte le volte che ho attaccato quell’obiettivo, gli uomini che ho lasciato a terra, i tanti amici che ho abbandonato in quei tunnel. Perché non facciamo saltare tutto? Perché continuano a mandarci lì dentro?

Non lo so. Non capisco.

Il mio dovere non è far domande, devo solo obbedire. Siamo Marines, andiamo dove ci dicono di andare, facciamo ciò che ci ordinano di fare. A bordo dell’immensa ammiraglia che ospita l’ospedale, mi preparo all’imbarco sul trasporto truppe. I mezzi sono carichi di nuova carne da macello, chiudono i portelloni simili a enormi mascelle. Vomiteranno i nostri corpi sull’obiettivo, lo sappiamo.

All’improvviso ricordo che devo ancora preparare gli uomini allo sbarco, inibire le loro paure, azionare il comando sulla mia armatura.

-Soldati della Federazione, è giunta l’ora dell’attacco, è giunta l’ora della preghiera.

Sono tutti pronti, attivo il comando. Mentre quelle strane sostanze liquide si mescolano al nostro sangue, recito con loro:

Questo è il mio fucile. Ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio.

Il mio fucile è il mio migliore amico. È la mia vita. Devo dominarlo come domino la mia vita.

Senza di me è inutile; senza il mio fucile sono inutile. Con lui devo sparare bene, meglio del nemico che tenta di uccidermi. Devo colpirlo prima che lui colpisca me. Lo farò…