I sensori funzionarono. Sì, diavolo d'un Gilbert, funzionarono davvero alla perfezione!
Tata Mary percepì il loro segnale a notte fonda, all'una e venti circa. Capì subito cosa doveva fare.
Muovendosi con cautela cominciò ad aprire armadi e cassetti. Una rapida consultazione delle previsioni meteorologiche dei giorni seguenti fu utile per capire cosa scegliere. Cielo sereno e temperatura elevata per l'intera settimana successiva, ovvero fino ai primi giorni di settembre.
Meglio così, avrebbe avuto più spazio a disposizione nel trolley e non avrebbe dovuto affrontare l'incognita e le difficoltà del freddo e della pioggia.
Il chiarore della lampada alogena illuminava con delicatezza il viso roseo della piccola Josephine, il cui sonno non era turbato dai lenti movimenti di Tata Mary alle prese con la scelta di vestitini e tutine, prelevati e riposti con metodica accuratezza nel capiente trolley fucsia, in cui trovarono posto anche un paio di coperte, alcuni asciugamani, sapone detergente, medicinali e un'abbondante scorta di pannolini.
Tata Mary non aveva finito, naturalmente. Aprì delicatamente la porta e percorse con il trolley la rampa che portava al pianterreno della casa.
Dall'ampia dispensa della cucina prese latte in polvere, biscotti, carne omogeneizzata e una tanica d'acqua. Dai sensori capì che le restavano meno di due ore. Doveva sbrigarsi.
Lasciò il trolley e la tanica d'acqua nell'ampio salone, vicino alla porta d'ingresso della casa, e risalì silenziosamente la rampa.
Josephine dormiva ancora, per fortuna. Ora Tata Mary doveva affrontare la parte più rischiosa. Prendere Josephine dalla culla senza farla svegliare.
Predispose tutto con cura. Spostò il passeggino accanto alla culla e vi appoggiò una copertina di cotone pesante.
Con la delicatezza e la dolcezza che le erano solite, sollevò la bimba dalla culla. Josephine ebbe un sussulto. Tata Mary le accarezzò i capelli e la bimba, rassicurata, si riaddormentò. Fu a quel punto facile deporla nel passeggino e uscire dalla stanza.
La porta della camera da letto dei Tindall, i genitori di Josephine, era aperta. I due dormivano profondamente e non si accorsero di Tata Mary che scendeva lungo la rampa spingendo il passeggino con dentro la loro unica figlia.
Tata Mary inserì la scheda magnetica e aprì la porta d'ingresso. Uscì trascinando il voluminoso trolley sul quale si manteneva faticosamente in equilibrio la tanica con l'acqua; il passeggino procedeva davanti a lei guidato dal telecomando.
L'aria era tiepida e sapeva piacevolmente di salsedine. Il mare era lì, a pochi metri. Se avesse avuto il tempo per farlo, Tata Mary avrebbe indugiato ad ascoltare il rumore delle onde che si infrangevano placidamente sulla riva e a contemplare le barche del porticciolo, mosse all'unisono dalla marea.
Ma in quei momenti ogni minuto era prezioso.
C'era ancora gente in giro a quell'ora della notte per le strade di Sausalito. La bella stagione volgeva al termine, tuttavia gli alberghi erano ancora affollati di turisti, alcuni dei quali si attardavano nei locali all'aperto del lungomare a sorseggiare un ultimo drink prima di rientrare nelle loro lussuose stanze.
Tata Mary percorse con lo sguardo la Baia di Richardson, soffermandosi per alcuni istanti sulla visione di Angel Island. Poi si sistemò con cura uno scialle sulla testa e s'incamminò volgendo le spalle al mare.
Dovette fare molta attenzione sia ad attraversare le strade a scorrimento veloce che portavano fuori città sia a non imbattersi in qualche pattuglia della Polizia che l'avrebbe certamente fermata vedendola spingere un passeggino a quell'ora della notte.
Tutto filò liscio. Dopo circa quaranta minuti si ritrovò all'inizio del Morning Sun Trail, una delle vie d'accesso al Golden Gate Park. Percorrere a notte fonda un sentiero che si chiama Sole del Mattino era una bella contraddizione, oltre che un grosso pericolo. Ma non aveva altra scelta.
Regolò il passeggino in modo che potesse muoversi a cuscinetto d'aria, evitando così che gli scossoni dovuti al terreno sconnesso potessero svegliare la piccola Josephine.
Attraversò un bosco che di giorno doveva essere colorato e affascinante ma che in quel momento appariva tetro e spettrale. Per fortuna il sentiero era ben indicato, così non fu difficile seguirlo al debole chiarore della luna.
Dopo un'ora abbondante di cammino gli alberi si diradarono per lasciare spazio a un'ampia radura.
Tata Mary diresse il passeggino verso un ruscelletto a poca distanza. Posò delicatamente a terra il pesante trolley, aggiustò la copertina sul corpicino di Josephine, placidamente assorta nei propri sogni, e si accovacciò sull'erba umida, tenendo la mano destra appoggiata saldamente al passeggino.
Pochi minuti dopo, un sordo boato preannunciò l'inizio dell'ecatombe.
William Gilbert aveva grossi problemi con la sveglia mattutina.
Doveva ricorrere a tre diverse sveglie regolate a cinque minuti di distanza l'una dall'altra e a intensità di suono crescente. La preparazione di questo rituale, per quanto complessa, non dava sempre l'esito atteso, con la conseguenza che il più delle volte Gilbert doveva fare delle corse rocambolesche per essere in ufficio in orario.
Quella mattina fu sufficiente la prima sveglia per destare Gilbert dal sonno. Undici piani più in basso il suono dei clacson per le strade di New York faceva capire che il traffico era già caotico.
Entrò in cucina e accese il WebVisor. Davanti allo schermo si presentarono immagini sconcertanti di distruzione e devastazione.
Restò a bocca aperta per alcuni secondi. Macerie dovunque, interi palazzi accartocciati su se stessi e crollati al suolo. Dove poteva mai essere accaduta quell'immane tragedia?
Puntò il dito sulla parte in alto a destra del visore per leggere i dettagli della notizia.
San Francisco, ore 3.19 A.M.: terremoto di magnitudo 8,1 devasta la città e le zone circostanti. Milleduecento vittime, bilancio destinato a salire.
Santo cielo! Quel cumulo di macerie era dunque la città di San Francisco! E quelle immagini trasmesse da un elicottero erano state registrate da poco, visto che a New York erano le otto e rispetto alla Costa del Pacifico c'erano tre ore di differenza.
Gilbert lasciò il visore acceso e andò in bagno. Era intento a radersi pensando a quelle povere vittime quando ebbe un sussulto. Si asciugò il viso in fretta e corse di nuovo in cucina.
Aprì sul visore la sezione dedicata alle mappe e digitò una parola. "Sausalito".
Non si era sbagliato. Quella cittadina era a solo cinque miglia in linea d'aria da San Francisco, quindi era stata certamente investita in pieno dal sisma.
Si vestì in fretta e percorse in pochi minuti il mezzo miglio che lo separava dal suo luogo di lavoro.
Trovò gran fermento negli uffici della Upminster & Co. Naturalmente tutti sapevano del terremoto.
Entrò senza bussare nell'ufficio di Hastings, al secondo piano dell'edificio. Lo trovò intento a sorseggiare una tazza di caffè bollente e a visionare le prime immagini del terremoto.
– Ciao Michael –, esordì con voce affannata. – Hai visto che disastro?
– Già –, rispose Hastings pensoso. – Sto guardando ora le immagini. È una tragedia immane.
– Ascolta, Michael, dovrei chiederti un favore urgente.
Hastings distolse lo sguardo dallo schermo e si voltò verso il collega. – Dimmi, William. Se posso aiutarti…
– Lì, nella zona di San Francisco, si trova uno dei nostri TM. Avrei bisogno che ne individuassi la posizione.
– Ti ricordi la matricola?
– Certo. TM-4K6.
– Poi mi spiegherai perché ti preoccupi di una nostra unità con tutto il casino che sta succedendo a San Francisco e dintorni –. Hastings inserì alcuni dati, poi disse: – È nella zona di Sausalito.
Gilbert non nascose la propria delusione. – Capisco.
Hastings proseguì pensieroso. – A guardare bene non è proprio a Sausalito ma a qualche miglio di distanza. Sembra addirittura che sia all'interno del Golden Gate Park –. Si voltò di scatto verso Gilbert. – Che diamine ci fa una nostra unità in quel posto in piena notte?
Gilbert mantenne la calma. – Riesci a fare un trace degli spostamenti delle ultime… diciamo… otto ore?
– Certo, dammi solo qualche secondo –. Hastings inserì data e ora di inizio e fine della ricerca, poi lanciò l'esecuzione del trace. – Ecco. All'una di notte ora della Costa Occidentale il TM era a Sausalito, in Turney Street. Lo vedi? È quel puntino rosso sulla mappa. Vuoi che attivi la vista soggettiva tridimensionale?
– No, grazie. Mi basta capire come e quando si è mosso.
Dopo pochi istanti il puntino iniziò a spostarsi sulla mappa.
Hastings non credeva ai propri occhi. – Non è possibile. Ha lasciato Sausalito nel cuore della notte! È come se…
Gilbert lo interruppe. Guardò Hastings dritto negli occhi. – Sì, amico mio. Il robot puericultrice TM-4K6, conosciuto familiarmente col nome di Tata Mary, ha percepito il terremoto con almeno due ore di anticipo e ha cercato riparo in un luogo all'aperto. Il tuo tracciato ne è la prova.
Hastings aveva le mani nei folti capelli. – Mio Dio, William, non dirmi che…
– Sì, Michael, su quel robot ho installato all'insaputa di tutti i miei sensori di terremoti.
I due non si parlarono per alcuni interminabili secondi. Poi fu Gilbert a rompere il silenzio. Parlò a bassa voce ma con tono deciso. – Michael, posso spiegarti tutto ma non adesso. Devo andare a recuperare quel TM. Capisci quanto sia importante per me, per la scienza?
Hastings si alzò di scatto frapponendosi tra Gilbert e la porta del proprio ufficio. – Mi dispiace, ma tu non vai da nessuna parte.
Gilbert lo guardò con aria di sfida. – Michael, che cosa ti prende? Lasciami andare!
Fuori la porta a vetri qualcuno si stava accorgendo del trambusto all'interno dell'ufficio.
Hastings assunse un tono conciliante. – Ti prego, ascoltami un attimo –. Lo invitò a rimettersi seduto.
– Se quello che ho visto non è un caso, i tuoi maledetti sensori hanno funzionato. Non so come tu abbia fatto a installarli su quel robot, ma questa è una faccenda che chiariremo in seguito. Ora è importante recuperare quel robot, sono d'accordo con te. Ma non posso mandarti lì da solo. I pericoli sono tanti e la posta in gioco è troppo alta.
– Intendi dire che…
– Sì, William, vai a casa e prepara tutto l'occorrente. Partiamo insieme. Prima possibile.
– Oh, Michael, è magnifico –, disse Gilbert con un sorriso. – Dovremmo prenotare subito due posti in aereo.
– Aereo? Gli aeroporti di San Francisco e dintorni sono tutti chiusi.
– Già –, fece Gilbert pensieroso. – Potremmo atterrare in un aeroporto non troppo lontano e noleggiare un'auto.
– E poi? Come pensi di trasportare qui il TM? Sai bene che per motivi di sicurezza i robot non possono salire sugli aerei.
Gilbert si passò una mano sul cranio pelato alla ricerca dell'ispirazione per una soluzione.
– C'è solo una possibilità –, sentenziò Hastings.
– Quale?
– Il mio vecchio furgone a idrogeno. Viaggeremo con quello fino in California. Così tu potrai caricare la tua attrezzatura per il recupero del TM e io potrò portare coperte e provviste per i terremotati. Questo viaggio sarà anche l'occasione per aiutare quella povera gente.
– Amico mio, hai avuto un'ottima idea. Ma hai pensato a quanto tempo ci vorrà per arrivare a destinazione?
– Sì, William. Senza tenere conto delle soste per riposarsi e per mangiare sono cinquanta ore circa, in pratica molto di più, visto lo scenario di distruzione che troveremo lì. Ma non abbiamo alternative.
Gilbert fece un lungo sospiro. – Va bene, faremo così. Quanto ti occorre per prepararti?.
Hastings guardò l'orologio. – Sono le nove e trenta. Ci vediamo a casa mia fra due ore esatte. Intanto parlo col capo e gli spiego il motivo della nostra partenza.
– Michael, non vorrai mica…
Hastings lo interruppe con un gesto della mano. – Certo, racconterò la verità. Ovvero che io e te ci assenteremo alcuni giorni per una nobile causa. Portare aiuto alle popolazioni colpite dal terremoto.
Gilbert fece un largo sorriso.
– A proposito, William –, proseguì Hastings. – Credi che il TM sia da solo lì?
– No, Michael, immagino di no.
– Bene. Allora abbiamo un motivo in più per compiere questo lungo viaggio –.
Gilbert si alzò, pronto per uscire.
Prima di congedarsi i due si abbracciarono, come per darsi coraggio e forza all'inizio di un'importante sfida.
La morfologia del terreno aveva subito profondi mutamenti.
Nella vasta pianura si era sollevata una collinetta di una decina di metri. Un profondo crepaccio largo una trentina di centimetri e lungo più di cento metri si era aperto al di là del ruscello. Alcuni alberi, poi, erano stati strappati al bosco e giacevano ora immobili e senza vita ai margini della radura.
Pochi minuti dopo le otto, Josephine spalancò i suoi meravigliosi occhi azzurri. Aveva dormito un sonno profondo e tranquillo. Il passeggino sistemato a cuscinetto d'aria a pochi centimetri dal suolo le aveva garantito l'isolamento dai devastanti movimenti del terreno che si erano susseguiti durante la notte.
Tata Mary percepì il risveglio della creatura e si chinò sul passeggino sorridendo. In pochi istanti i suoi rilevatori fecero una misurazione dei parametri vitali della bambina e verificarono che era in ottimo stato di salute.
Josephine sembrò inizialmente disorientata per essersi svegliata nel passeggino invece che nella culla e per essere all'aperto invece che nella propria stanzetta.
La vista di Tata Mary la rinfrancò. Ricambiò il sorriso, protese le braccia verso di lei e con voce squillante esclamò: – Scendere!
A diciotto mesi aveva già imparato molte parole. Aveva anche iniziato a elaborare alcuni semplici concetti che permettevano ai suoi interlocutori di comprendere le sue necessità.
La posizione nel passeggino non era in effetti molto comoda. Tata Mary la prese tra le braccia e la depositò delicatamente sull'erba umida.
Josephine si guardò intorno incuriosita. Si mise a camminare, cominciò a esplorare quel posto. Ogni tanto emetteva un gridolino e faceva un saltello, segno evidente dell'entusiasmo che provava nel muoversi nella radura.
Il giro d'esplorazione durò alcuni minuti sotto lo sguardo vigile di Tata Mary.
Poi la bimba tornò al passeggino esclamando: – Latte!
La tata robot aveva già predisposto tutto. Un telo impermeabile steso sull'erba, latte in polvere e acqua nel biberon, riscaldato alla giusta temperatura grazie ai potenti fasci a microonde.
A Josephine non dispiacque poi il veloce risciacquo nelle acque del torrente, per quanto fossero piuttosto fredde. Tata Mary la asciugò e la vestì con cura, pronta a farle riprendere l'esplorazione.
La bimba si stancò molto quel giorno; infatti Tata Mary non fece alcuna fatica per farla addormentare la sera. La fece accomodare nel passeggino e le raccontò una delle tante favole contenute nei suoi archivi. Josephine si addormentò senza terminare nemmeno il biberon di latte.
Era andato tutto bene. Almeno per quel giorno.
Gilbert e Hastings si conoscevano da quasi vent'anni. Erano stati assunti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro alla Upminster & Co., leader mondiale nella produzione di robot umanoidi. Entrambi si erano resi protagonisti di una brillante carriera. Gilbert, Direttore Tecnico della linea Robot Domestici, Hastings, Responsabile dell'Ufficio Sicurezza e Integrazione Robotica.
Trascorsero la prima ora di viaggio ad analizzare e a commentare le notizie sul sisma. I morti erano saliti a novemila. Molti abitanti di San Francisco stavano attraversando il Golden Gate Bridge per raggiungere le tendopoli che venivano allestite nella parte sud del Golden Gate Park.
– Il terremoto è stato più violento di quello del 1906 –, disse Gilbert.
Poi la discussione si spostò sulla loro missione.
– William, l'ultima volta che ho sentito parlare dei tuoi sensori è stato due anni fa a Sendai.
– Già –, ribatté Gilbert pensieroso e consapevole di dover rivivere un brutto ricordo.
– Cosa è successo da allora?
– Visto che il tempo non ci manca, ti racconto tutto dall'inizio –, disse Gilbert senza nascondere una certa amarezza. Continuò a parlare con lo sguardo fisso in avanti, verso la strada.
– Forse ricordi che cinque anni fa ero alla sezione Robot Minatori. Mi occupavo della ricerca di un metodo affidabile che permettesse di prevenire i crolli in miniere e gallerie. Stavo facendo degli studi sull'emissione e l'assorbimento delle onde a bassa frequenza quando mi accorsi che un segnale ben preciso poteva essere considerato il precursore di un sisma. Misi a punto dei sensori basati su questo segnale e, in virtù del prestigio di cui godevo per le mie ricerche nel campo della robotica, ebbi il permesso di installarli in alcuni dei principali osservatori geofisici del pianeta, nonostante lo scetticismo generale.
– Poi due anni fa ci fu un terremoto in Giappone –, lo interruppe Hastings, desideroso di arrivare al dunque.
– Sì, al nord, nella zona di Sendai, la stessa colpita dal terribile terremoto del 2011 –, proseguì Gilbert. – I miei sensori erano installati anche lì.
– Ma non funzionarono –, lo incalzò Hastings.
– Era la prima volta che si verificava un terremoto significativo in una zona coperta dai miei sensori –, continuò Gilbert, incurante dell'interruzione. – Fu registrata una scossa di 5,8 gradi della scala Richter. Che però, come tu mi ricordi, non fu segnalata in anticipo, come sarebbe dovuto accadere.
– Cosa era successo?
Gilbert sospirò. – Il valore di soglia. In base ai miei calcoli i sensori avrebbero dovuto rilevare con un anticipo tra i novanta e i duecentoquaranta minuti una scossa di magnitudo superiore a 5,0. Per evitare sorprese comunicai che il valore di soglia era 5,5.
– E invece?
– Invece non accadde nulla. Perché, come scoprii in seguito, occorreva tenere conto di ulteriori fattori di dispersione che innalzavano il valore minimo segnalato alla magnitudo 6,2.
Hastings si voltò verso di lui. – Quindi se quel terremoto fosse stato di intensità superiore sarebbe stato rilevato in anticipo.
– Proprio così, amico mio. Ma naturalmente nessuno volle credermi quando rifeci i calcoli. E così i miei sensori sono stati annoverati fra le grandi bufale della scienza moderna, al pari della fusione nucleare fredda di Fleischmann e Pons.
Hastings proruppe in una sonora risata. – Però non ti sei perso d'animo, a giudicare da quello che mi hai raccontato stamattina in ufficio!
Gilbert sorrise. – In effetti ho proseguito gli studi sui terremoti di nascosto mentre la mia carriera di progettista di robot per fortuna andava avanti senza intoppi; due anni fa, come ricordi, abbiamo lanciato i primi modelli di robot per uso domestico. Una svolta epocale! Tornando ai sensori, li ho resi più sensibili abbassando il valore di soglia a 4,8 gradi della scala Richter –. Si voltò verso Hastings per cogliere l'espressione del suo viso mentre terminava la confessione. – E ho anche messo a punto una versione miniaturizzata che ho installato di nascosto su alcuni robot domestici. Su modelli TM, i robot più evoluti. Destinati ad assistere i genitori nella crescita dei figli. Robot distinguibili dagli umani solo da un occhio esperto. Ne ho scelti otto, tra quelli destinati a operare in zone a rischio sismico.
– Di quest'installazione naturalmente non c'è traccia su nessuna scheda tecnica –, disse Hastings con tono di rimprovero.
– Naturalmente no –, si schernì Gilbert.
– Ti sei preso un bel rischio. Il minimo che possa capitarti è di essere licenziato.
– Lo so –, disse Gilbert a bassa voce. – Ma era un pericolo che dovevo correre se volevo dimostrare la bontà della mia invenzione.
Stavolta fu Hastings a sospirare. – Non so se ammirarti o disprezzarti per quello che hai fatto –. Sorrise. – Lo deciderò dopo aver bevuto un buon caffè –. Indicò la stazione di servizio sulla destra. Erano nei pressi di Bellefonte, in Pennsylvania. – Fermiamoci qui, sono già quattro ore che stiamo viaggiando.
Josephine scoppiò a piangere. Per la prima volta da quando era stata portata via dalla propria casa a Sausalito.
Era notte fonda. Per uno strano caso, giusto ventiquattro ore dopo la terribile scossa di terremoto.
Forse aveva fatto un brutto sogno. Tata Mary interruppe lo stand-by, intensificò la luce dei visori e si chinò su di lei. Cominciò ad accarezzarle delicatamente i capelli e a sussurrare una dolce ninnananna. Non fu sufficiente per farla riaddormentare. La bimba sembrava non trovare pace.
Tata Mary preparò in fretta un biberon con del latte. Josephine finalmente si calmò e, nel giro di pochi minuti, riprese il sonno interrotto.
Il pomeriggio del giorno dopo Tata Mary provò a tornare a casa. Josephine si era svegliata presto, allegra e sorridente come sempre. Si era poi stancata molto tra la corsa spensierata nella radura e i giochi proposti dalla tata e si era addormentata nel passeggino subito dopo pranzo.
Tata Mary prese il trolley e posizionò il passeggino davanti a sé. Si mise a camminare percorrendo lo stesso sentiero dell'andata. Nonostante fosse giorno, faceva molta più fatica di due notti prima. Il percorso, infatti, era disseminato di alberi caduti che la obbligavano ad allontanarsi dal sentiero.
Camminò per quasi tre quarti d'ora. Poi fu costretta a fermarsi. In quel punto il Morning Sun Trail era completamente ostruito dagli alberi caduti. Studiò per qualche istante la situazione e si rese conto che per aggirare quegli ostacoli avrebbe dovuto deviare sensibilmente il proprio percorso, senza avere peraltro la certezza di riuscire a ritrovare la strada.
Tra tutti i modelli realizzati dalla Upminster & Co. (azienda che deteneva sostanzialmente il monopolio nel settore), il TM era quello nel quale la verosimiglianza con gli umani era più curato. I progettisti attingevano a un catalogo di figure femminili che poi riportavano nelle fattezze del robot.
Però, a differenza di robot progettati e utilizzati per altri scopi, il modello TM, per quanto evoluto, non era dotato di meccanismi di navigazione guidata che permettessero di raggiungere destinazioni sconosciute oppure di determinare percorsi alternativi verso luoghi noti. Tata Mary era in grado solo di memorizzare e ripercorrere itinerari conosciuti, come quello del Morning Sun Trail, che aveva già percorso una calda domenica di primavera in una gita con i Tindall.
Così il robot non poté fare altro che seguire le indicazioni fornite dai complessi algoritmi di Sicurezza Umana e Robotica. Tornare nella radura, preparare la piccola Josephine a una nuova notte all'aperto e aspettare. Aspettare.
Gilbert non aveva mai guidato un furgone. Né aveva mai percorso gli Stati Uniti coast-to-coast. A quasi cinquanta anni si riescono a fare esperienze che fino al giorno prima non avevi nemmeno preso in considerazione. Magari anche sposarsi e avere dei figli.
Era assorto in questi pensieri mentre alla luce dei fari percorreva la Interstate 80. Il tetto panoramico mostrava un cielo punteggiato di stelle. Erano all'altezza di Evanston, in Wyoming, quasi a due terzi del viaggio, perfettamente in linea con la tabella di marcia.
Hastings sonnecchiava sul sedile accanto. Si svegliò di soprassalto. Quasi gridò. – William!
Gilbert, alle prese con le proprie riflessioni, sobbalzò. – Michael, mi hai spaventato!
– Scusami, non volevo. Stavo riflettendo sul comportamento del nostro TM.
– Ebbene?
– Se è vero che il robot ha percepito in anticipo l'arrivo del terremoto avrebbe dovuto dare l'allarme. È un principio fondamentale codificato nella Prima Legge della Robotica –. Citò a memoria con voce solenne. – Un robot non può arrecare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
– Vai avanti.
– Però mi chiedo quale essere umano razionale si metta a seguire nel cuore della notte un robot che farnetica di scosse di terremoto.
– Il tuo ragionamento non fa una piega –, convenne Gilbert. – Ed è molto simile a quello che ho fatto io quando ho progettato la versione miniaturizzata dei sensori.
– Cioè?
– Come sai, a ogni meccanismo di allarme robotico può essere assegnata una priorità che stabilisca l'entità del pericolo a cui vanno incontro robot e umani.
– So di cosa parli, continua.
Gilbert si voltò verso l'amico. – Per scosse di quella entità ho impostato i sensori alla priorità D-2.
– D-2… –, ripeté Hastings pensieroso. – Ricordo di aver codificato io stesso quella priorità, specifica dei robot domestici.
– Allora ricordi anche che quel codice di priorità impone al TM di salvaguardare esclusivamente l'incolumità dell'umano che gli viene affidato.
Hastings restò in silenzio per alcuni istanti. I propri pensieri stavano terminando la ricostruzione logica degli eventi.
Appoggiò la mano sinistra sul braccio di Gilbert.
– Ho capito. La nostra unità non ha dato l'allarme, si è solo limitata a eseguire l'ordine codificato. Ovvero mettere al sicuro l'infante affidatole.
– Si chiama Josephine Tindall. È una bambina di diciotto mesi –, puntualizzò Gilbert. – Credo che se i genitori si fossero accorti del TM che fuggiva con la propria figlia lo avrebbero certamente bloccato –. Si voltò verso Hastings. – Sono quasi certo che in quel punto del Golden Gate Park ci siano solo il robot e la bambina.
– Una bimba di un anno e mezzo sola nei boschi con un robot.
– Non è questo che mi preoccupa: ho molta più fiducia in un TM che nella maggior parte degli esseri umani –, disse Gilbert senza nascondere il proprio sarcasmo.
– Allora che cosa ti preoccupa?
Gilbert sospirò. – L'autonomia del TM –. Proseguì. – Ho consultato pochi minuti fa il log giornaliero. I parametri biometrici sono perfetti, ma il livello energetico dell'unità è solo al cinquanta per cento.
– Così basso? Io so che di norma non dovrebbe scendere mai sotto il settantacinque per cento. Là dove si trova, il TM non può disporre di punti di ricarica ma avrà certamente con sé le celle di energia.
– Comincio a temere che non le abbia portate.
Hastings gli rivolse uno sguardo interrogativo.
Intanto un cartello stradale dava loro il benvenuto nello Utah.
– Ci stavo riflettendo proprio ora –, cominciò a spiegare Gilbert. – Prova a immaginare la situazione. Il robot è informato in anticipo dell'imminente terremoto e si predispone per mettere al sicuro la piccola Josephine. Certamente prepara un bagaglio con tutto l'occorrente per la sopravvivenza della bambina. Deve prendere anche le celle di energia, ma si rende conto che per portarle con sé dovrebbe eliminare dal bagaglio oggetti necessari alla bimba.
– La salvaguardia dell'umano è prioritaria rispetto a quella del robot. Una conseguenza inevitabile delle Leggi della Robotica –, fu il commento di Hastings.
– Dobbiamo fare presto –, concluse Gilbert. – La bimba rischia di restare sola accanto a una macchina senza vita.
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