A giudicare dai film di fantascienza di maggior successo negli ultimissimi anni, sembra che il cinema abbia decisamente sterzato verso una visione tragicamente pessimistica del futuro che ci attende. A ben guardare, una fantascienza dark al cinema, dove l’avvenire dell’umanità è dipinto a tinte fosche, non è mai mancata. Tuttavia, fatte salve alcune eccezioni, come Avatar, nel quale il futuro nemmeno tanto remoto vede la nostra civiltà viaggiare con una certa disinvoltura in altri sistemi stellari, la tendenza è quella rappresentata dall’ultimo Oblivion di Joseph Kosinski, nel quale i protagonisti si muovono su una Terra devastata dalla guerra con gli alieni ma anche dall’incessante sfruttamento delle sue risorse. Un mondo post-apocalittico al quale ci stiamo abituando a fare i conti. La tendenza non è passata inosservata, e ne ha parlato qualche giorno fa Graeme McMillan sulla rivista Time in un articolo dal titolo: “Where Are Our Bright Science Fiction Futures?”, ossia “Che fine hanno fatto i futuri luminosi della fantascienza?”. Domanda legittima, se guardiamo soprattutto all’esempio portato dall’autore, quello di Star Trek, che nelle sue serie televisive e nei suoi film ha sempre proposto l’immagine di un futuro luminoso, ottimistico, quasi utopistico. Niente guerre, niente denaro, niente dispotismo, niente divisioni per l’umanità del XXIII secolo, governata dalla democratica Federazione. Che, certo, deve sempre affrontare qualche problema, anche grave, ma mai tale da inficiare il modello ottimistico di futuro proposto dall’universo inventato da Gene Roddenberry.

Si trattava, dopotutto, di un futuro molto simile a quello presentato nelle pagine di tanta fantascienza pubblicata nella cosiddetta “Golden Age”. Una fantascienza che in America muove i suoi primi incerti passi sulle orme delle visioni di Verne e Wells, e che prende forma nelle narrazioni di tecno-entusiasti come John Campbell, dove il futuro dominato dagli straordinari progressi della scienza è inevitabilmente dorato. I romanzi di Isaac Asimov, in cui l’umanità, pur tra mille problemi, riesce infine a unirsi e diffondersi tra le stelle, presentano un’immagine tutto sommato rassicurante in cui i nostri pronipoti, assistiti da benevoli robot, affrontano la colonizzazione della galassia affrancandosi dal legame con la madre Terra. Non mancano, anche nei romanzi di Robert Heinlein, visioni ugualmente ottimistiche, sfocianti nell’utopismo di A noi vivi, ambientato nel 2086, in cui si dipinge un futuro dove l’umanità ha risolto tutti i suoi problemi. Nell’articolo su Time, Graeme McMillan affianca a Oblivion il prossimo After Earth, in uscita a giugno: il film, diretto da M. Night Shyamalan, con Will Smith nei panni del protagonista, è ambientato su una Terra sconvolta da catastrofi naturali prodotte dalla

Tom Hanks e Halle Berry in alcuni dei personaggi che interpretano in Cloud Atlas.
Tom Hanks e Halle Berry in alcuni dei personaggi che interpretano in Cloud Atlas.
pressione antropica della civiltà, che per scampare alla distruzione ha abbandonato il pianeta madre per ripartire su un nuovo mondo. L’idea è molto simile, in effetti, a quella di Oblivion, dove i sopravvissuti alla catastrofe hanno abbandonato la superficie terrestre, lasciata in balia di sacche di extraterrestri e esseri umani sbandati. E ricorda molto lo scenario futuristico di Cloud Atlas, successivo a una non meglio precisata apocalisse: anche qui, la salvezza per i pochi sopravvissuti, in buona parte ricaduti allo stato tribale, è affidata a coloro che sono riusciti a scampare all’apocalisse rifugiandosi in colonie oltre la Terra.

Lo scenario di un pianeta martoriato dalle catastrofi, principalmente di tipo naturale, ma legate all’abuso della natura da parte dell’Uomo, è una costante nel cinema di fantascienza a partire dagli anni Novanta, quando la coscienza ambientalista del decennio precedente inizia a diffondersi nell’immaginario collettivo, alimentata anche dalle brutte notizie sul buco dell’ozono e sul riscaldamento globale. Waterworld nel 1995 dipinge un futuro in cui il pianeta è sommerso dagli oceani, il cui innalzamento nei secoli precedenti è ovviamente il prodotto del cambiamento climatico. L’alba del giorno dopo nel 2004 presenta invece uno scenario completamente diverso, in cui al riscaldamento globale fa seguito una fin troppo improvvisa glaciazione.