Avrei voluto tirarmi indietro, ma a quel punto rispondere: “Scusate, preferirei condurre una vita qualunque”, avrebbe comportato la mia morte istantanea. Nessuno mi aveva mostrato gli esiti delle varie possibilità, ma non avevo dubbi in merito.

E poi, a ben pensarci a mente fredda, cosa c’è di così terribile nella morte? Custodire segreti che i latini e i sabini non potranno comprendere, e che i volsci non potranno mai decifrare, è un gioco da ragazzi: basta non rivelare loro il significato dei segni che incidiamo in lingua rasna, o “tuscia”, come la chiamano loro non ricordo bene per quale leggenda da loro stessi inventata e da loro stessi a noi rasnas attribuita. Non c’è mai un limite alla presunzione latina.

Ma a cosa serve tramandare il segreto del pecorino di Luni, del vino delle colline del sud, dei monili montati su argento il cui particolare colore nessuno riesce a rifondere, o persino la ridanciana irriverenza che fa sopravvivere il nostro popolo anche nelle miserie più crude, se tanto non possiamo insegnare l’arte e il sapere?

A Charun e a tutti gli dèi degli inferi, i Libri della Disciplina!

E la cacca delle stelle.

Loro atterrarono qui e si dimenticarono della colonia dei primi padri e delle prime madri; poi tornano ogni tanto a tenerci a bada - chissà se un giorno potremo servir loro? - e ricordano ai “prescelti” che un giorno sono risaliti sulle stelle da quaggiù.

Splendido segreto!

In onore e ricordo delle case di ferro che, quel giorno, salparono di nuovo verso il cielo, noi, qui, costruiamo i tumuli di pietra a esse somiglianti, in cui riposeranno per sempre i nostri cari estinti.

Per la Grande Madre Uni, nostra mammella divina!

Ma le calotte non s’innalzeranno verso lo spazio infinito; si rivestiranno sempre più di erba e di tempo, nascondendo le loro facce di tamburi per musiche spettrali; le pietre non si staccheranno mai dalla terra traditrice, la terra che ci ha inconsapevolmente rapiti, nell’attesa che queste ombre dallo sguardo antico ci riportassero là, dove vive quel che resta della nostra specie; l’attesa non si placherà più, nella fissità degli occhi di Aplu, che infonde spirito al doppio flauto e già accompagna la mia anima dove loro vorrebbero far dimorare il mio corpo, una volta che essa lo avrà abbandonato.

È stato come uccidermi, non come farmi nascere a nuova vita. Forse per loro significa la stessa cosa, forse hanno voluto simboleggiare con tutto questo una sorta di nuova nascita e un nuovo modo di affrontare la vita, per me; ma non l’avranno vinta.

Se i tumuli non potranno più volare verso il cielo, non concederò loro il mio corpo.

Per la Grande Madre Uni, Signora delle stelle e degli abissi!

Che m’importa di quello che vogliono farmi ricordare? Il luogo in cui dormiamo per sempre è costruito a immagine e somiglianza di quelli che ci hanno negato la vita nell’alto dei cieli, facendoci atterrare senza più riaccoglierci a bordo? Per me non fa alcuna differenza. Erano altre, le cose avrei voluto imparare. Io voglio imparare! Io voglio sapere come si fa a risalire sulle stelle, come si fa a sparire e a ricomparire in luoghi diversi e distanti, come si fa a piegare gli uomini e le donne alla nostra volubile volontà. Voglio essere una vera Dea, quel che solo la cronologia e un errore di chi si è ritenuto superiore, mi ha potuto sottrarre.