Il primo sentimento forte che mi ha preso nello sfogliare le oltre 450 pagine di questi due grandi volumi formato A4 è stato il rimpianto. Ma non il rimpianto trito e banale per un tempo idealizzato, tipo “perdita dell’Eden”. Concretamente, mi son trovato reimmerso in un momento irripetibile della nostra storia – nostra dell’Occidente – in cui (perfino) la fantascienza  lasciava intendere d’avere tantissime cose da dire, fare, scoprire. E soprattutto c’era gente – molta gente – che aveva entusiasmo, e la visione e gli strumenti tecnici e creativi per dire, fare, indagare, scoprire.

Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70 – due corposi volumi a cura di Antonio Caronia e Giuliano Spagnul – è dunque la cospicua scheggia di un vorticoso passato carico di fervore e di idee, che riemerge, quasi come un intruso,  nel nostro degradato desolato presente. Si tratta di un’accurata raccolta integrale, nel formato originale e in versione anastatica, dei nove fascicoli della rivista amatoriale Un’ambigua utopia (UAU), vissuta dal 1977 al 1982. Prodotta da un collettivo di ex militanti di una organizzazione dell’estrema sinistra, UAU si proponeva di “colmare la lacuna esistente nella cultura di sinistra nei confronti della fantascienza”, come dichiarano i curatori in IV di copertina, ma in verità ebbe numerose valenze. La rivista riprendeva il nome dall’omonimo romanzo di Ursula Le Guin, e resta oggi – fra le esperienze emerse dal movimento italiano del ’77 – una delle più bizzarre, “ma paradossalmente anche una delle più fertili”. Completano i due tomi un’introduzione dei curatori (protagonisti di quel collettivo) e la trascrizione d’un dibattito avvenuto in Rete nel 2001 sulla webzine Intercom. Una vasta documentazione fotografica integra l’iconografia dell’opera.

Nell’introduzione, Caronia e Spagnul, dopo aver abbozzato un quadro un po’ autoironico circa le modeste attrezzature del collettivo – com’era d’altronde per tutte le attività amatoriali dell’epoca – scrivono:

“A dispetto di quello che tanti pennivendoli raccontano oggi, gli anni ’70 in Italia furono un enorme cantiere sperimentale, una rassegna di innumerevoli modi di praticare nel concreto le varie utopie di cambiamento nel mondo, insieme alla costruzione di un’impalcatura reale e duratura di quel contropotere necessario a sostenerlo. Questo non significa indulgere alla stupida contrapposizione, in voga oggi, tra ’68 e ’77; sappiamo che quest’ultimo, senza il primo, non sarebbe potuto esistere; ma sosteniamo che il vituperato ’77, quel Franti nella classe delle date storiche, fu uno tra i più significativi sussulti rivoluzionari nella controstoria del nostro Paese. Quello che più d’ogni altro ha allargato la partecipazione e tutte le classi, le categorie, i generi di persona, senza di fatto certificare l’egemonia di nessuna d’esse sulle altre; e per altro verso ha messo in campo tutte le pratiche di cambiamento possibili – economiche, culturali, spirituali, sessuali e via dicendo – in un’incessante discussione, che si concentrava in particolare sulle questioni del potere e della violenza. Senza dimenticare (…) quella vera e propria faglia di Sant'Andrea che fu il femminismo. Se non teniamo presente questo quadro di riferimento, la storia di UAU, insieme alla stragrande maggioranza delle storie di allora, non solo è trascurabile, quanto del tutto incomprensibile (…) Più che giustificato, quindi rimestare le ceneri di quel passato, foss’anche solo per far rivivere un documento marginale in quel contesto, quale fu UAU. E lo facciamo volentieri. Nove numeri di una rivista partita con un ciclostile e approdata a una vera tipografia; e poi un libro, e una libreria; tentativi vari di studi redazionali (…) manifestazioni, dibattiti, convegni, feste, trasmissioni radiofoniche, una vasta eco sulla stampa nazionale non di settore, una proliferazione di altri gruppi e riviste associate in tutt’Italia (…)

E se la fine di UAU, da una parte si inscrive nella scia del concomitante esaurirsi del “movimento” dei ’70, dall’altra va di pari passo con quella devitalizzazione che il genere fantascienza andava man mano evidenziando (…)

Ma perché scegliere proprio la fantascienza, con la sua ombra di irriducibile fiducia nel progresso e nella razionalità tecnico-scientifica, già in crisi da fine ’800 e di nuovo sotto attacco proprio in quegli anni da parte di una rinvigorita critica politica? (…)

Di fatto, eravamo convinti che la fantascienza fosse la forma narrativa più adatta a esprimere la sensibilità di una società industriale matura. Ballard l’aveva detto prima di noi, fin dagli anni ’60. La fantascienza era il tipo di letteratura che meglio esprimeva la mediazione tra natura e cultura messa in atto dalla società industriale, ma era proprio il motivo per cui ne esprimeva anche la crisi (…) Il valore della fantascienza consisteva in fondo in due punti fondamentali: essa minava, talora scardinava, la nozione ristretta di “realtà”, reintroducendo il “possibile” come irrinunciabile elemento costitutivo del reale. In secondo luogo, essa inseriva nella narrazione il punto di vista del “futuro”: ma così facendo metteva in discussione la neutralità della narrazione, mostrando che ogni discorso viene enunciato da un tempo determinato, da un luogo preciso, e quindi è illusorio – se non mistificante – assegnare valori assoluti a certe enunciazioni, a certi saperi. Ogni conoscenza è “situata”. Le stesse cose che andava scoprendo il movimento femminista, per rivelare le mistificate radici maschili del pensiero occidentale (…)

Come rammenteranno i lettori più anziani, e noteranno i più giovani, una lettura del fenomeno “fantascienza” proposta e vissuta in quest’ottica, assumeva contorni anche “rivoluzionari”, o comunque di svecchiamento e d’avanguardia; insomma “politici”, sia pure in senso esteso. Una science fiction che si facesse scansione a 360 gradi del mondo visibile, invisibile o sognato; una narrativa che ci parlasse di utopie o distopie future, ma soprattutto – tra le righe – del presente. Ed ecco quindi le predilezioni per autori quali Philip K. Dick, Thomas Disch, Joanna Russ, James Tiptree jr (alias Alice Sheldon), Ursula Le Guin (ovviamente), Naomi Mitchison, Philip Jose Farmer, Barrington J. Bayley, Raphael A. Lafferty, John H. Varley, e altri.

Ma non solo. In Incarnazioni dell’immaginario, prefazione al volume I labirinti della fantascienza. Guida critica (Feltrinelli, 1979), Caronia scriveva:

"La scrittura della nuova fantascienza (…) è impegnata in operazioni di destrutturazione del reale, di esplorazione di nuovi codici comunicativi, in un universo che la crisi e la scomposizione del linguaggio tiene costantemente aperto (…) La nuova fantascienza gioca con le [vecchie] convenzioni stilistiche e narrative fino a stravolgerle, a farne elementi autentici di critica e di conoscenza. (…) Questa fantascienza vuole caricare di ambiguità i [vecchi] temi del corpo e della sessualità per farne strumento di conoscenza reale e di messa in crisi dei modelli. Pensiamo alla distanza che separa fra loro tre opere che affrontano, ognuna a suo modo, il tema del cambiamento di sesso o dell’androginia: Non temerò alcun male di Heinlein (1971), La mano sinistra delle tenebre della Le Guin (1969), Triton di Samuel R. Delany (1976)."

Importante è anche, in tema di linguaggio, il perseguimento di un suo nuovo valore quale “sapere sociale” e “mediatore con il reale”. Si tratta di una mutazione linguistica capace di scendere più in profondità di quanto avessero mai saputo fare gli autori in precedenza. La nuova fantascienza degli anni ’70 mostrava d’aver assimilato una consapevolezza della dimensione “politica” del discorso, la capacità di articolare una diversità che rompeva con il passato.

Da quanto accennato, emerge come UAU abbia interpretato un ruolo fondamentale nello snellire e cercare di rinnovare l’apparato critico fantascientifico italiano, ancora legato – per la maggior parte – a vecchie idee classiche. Ma soprattutto la rivista rappresentò un valido contrappunto alla critica di destra della sf. Mentre questa proseguiva con simbolismi, inconscio collettivo, Jung, Guénon (che al riguardo avevano anche detto cose interessanti), UAU si sforzò di rinnovare i canoni, di aggiornarli pescando nel reale e nel contemporaneo, di attingere altrove.

Soprattutto Caronia, nel tempo ha continuato a dar vita ad iniziative molto interessanti, sia in campo critico sia nel campo dei seminari o di rappresentazioni: ce lo confermano interessantissimi Cataloghi di quelle manifestazioni, vere e proprie raccolte di saggi critici. Negli anni ’90 Caronia scrisse opere primarie (un volume sul cyborg, poi ampliato; un altro sul rapporto tra uomo, rete, moltiplicazione delle personalità; con Nico Gallo libri sul cyberpunk e su Philip Dick, e altro ancora).

Tutto ciò che qui ho scritto finora, però, è solo una premessa che cerca di inquadrare tempi e istanze che riverberano dalle pagine di questa iniziativa editoriale. Pagine di cui  ho ancora detto pochissimo, anche se sono a ben vedere la ragione di queste mie righe.

Pagine ricche di dozzine di articoli, di saggi (sempre documentati, approfonditi, interessanti: come quelli sull’attualità dell’Utopia, sulle Mutazioni, sull’ambiente, sul ruolo dei bambini); e schede, fumetti, vignette, illustrazioni. Informazioni su iniziative, rubriche di Posta, tantissime recensioni di libri e film. Articoli talora anche di cronaca, saggi solo tangenzialmente di fantascienza, riguardanti aspetti del presente (d’allora), racconti di autori allora emergenti (quali Claudio Asciuti) ma anche autori famosi, quali Theodore Sturgeon; riflessioni di vario genere. Pagine dedicate anche alla più insolita convention organizzata in Italia: L’invasione dei mar/x/ziani, Milano, 15/18 settembre 1978, alla quale partecipai con enorme piacere. Una pacifica invasione di alieni (molti dei partecipanti erano mascherati e truccati) con una banda musicale e slogan politico/caricaturali, per immettere il fantastico nel quotidiano, dichiarare l’occupazione del Pianeta, risvegliare il “marziano” che c’è in te…

Un solo dettaglio non condivido, il tipo di immagini di copertina, che poco ha a che vedere con i contenuti.

Comunque sfogliare queste pagine è fermare il tempo per ascoltare le voci di un universo antico, perduto, pieno di voglia di cultura, di capire, di farsi parte concreta in un processo d’emancipazione, di liberazione; e poi tanta voglia di “fare”, pensando a un mondo migliore.

Insomma un’epoca (breve) di fermenti nella quale avevamo ancora un’idea di “futuro”.

E per avere un futuro, cioè un fine, occorre poter sognare.