Un'immagine di Ernesto Gastaldi
Un'immagine di Ernesto Gastaldi

Non l'ho mai chiesto a nessuno che lavorasse a tale genere di film, ma che pensi di quella... definizione?

Vuoi dire "western spaghetti"? Penso che fosse il giusto nome per i film che scopiazzavano quelli dell'America cercando di essere simili; ma penso fosse sbagliato applicare tale definizione a western italiani che cambiarono il modo in cui erano fatti i film sul Vecchio West. Dopo le opere di Leone, gli stessi western americani cambiarono parecchio, divennero più realistici.

Capisco che è una grossa questione, ma potresti raccontare qualcosa circa la tua relazione personale e professionale con Sergio Leone?

Quando incontrai Sergio la prima volta, io ero un asino vanitoso e cozzai con lui quasi immediatamente. Lui usava umiliare la gente. Commentando una delle mie scene, mi disse: "Questa è da serie C!" Io avevo un formidabile timbro sonoro, e urlai: "Chi credi di essere? In serie A c'è Fellini, tu sei in serie B e ancora non hai vinto il campionato!" Me ne andai sbattendo la porta. Venti giorni dopo Sergio mi telefonò come se ci fossimo lasciati il giorno prima, dicendo che forse io non mi ero del tutto sbagliato su quella scena.

Io ho amato Sergio e ho vissuto enormemente la sua perdita. Era un genio senza cultura, un "figlio di puttana", ma gli volevo bene. Ho lavorato con lui benissimo, sentendo che stavamo costruendo insieme qualcosa di buono. Rifiutai di continuare a scrivere C'era una volta in America perché egli pretendeva che la nostra collaborazione fosse come un matrimonio, senza alcun tempo disponibile per una vita personale, ma rimanemmo amici. Lui era un "figlio di puttana" ma anche un genio: e io preferirò sempre un figlio di puttana genio a una simpatica mediocrità.

Un momento: stai dicendo che tu lavorasti anche a C'era una volta in America? La sceneggiatura era accreditata a Leone, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli, Franco Ferrini...

Io scrissi il trattamento originale. Le cose andarono così: stavo scrivendo Un genio, due compari e un pollo con Sergio (per Damiano Damiani) e lui mi portò un libro da leggere, un thriller. Questo divenne il nocciolo del film. Il libro mi piacque molto: era l'autobiografia di un autentico, vecchio killer, che si era ritirato nei primi anni Trenta. Due settimane dopo, Sergio mi presentò un tranquillo signore anziano con occhi blu e uno sguardo alla Frank Sinatra: era l'autore del libro, scritto insieme a sua moglie [NdC: si trattava del romanzo Mano armata (The Hoods, 1983) di Harry Grey, pseud. di David Aaronson]. Raccontò che aveva ucciso 29 persone nei tardi anni Venti a New York, usando sempre un rasoio. Ci chiese se stessimo pensando che era una cattiva persona; noi non rispondemmo. Spiegò che egli aveva ucciso solo altri gangster, chi capiva le regole di base; avrebbe disprezzato assassini di donne e bambini, o chiunque lo facesse per meno di 100 dollari. Lui incassava 25.000 dollari per ogni omicidio... e sto parlando di dollari degli anni Venti!

Il libro raccontava la storia di come, in quei giorni, egli avesse contattato la polizia per salvare uno dei suoi più cari amici che stava impazzendo a causa della sifilide, nell'intento di prevenire il suo suicidio durante una rapina programmata. La polizia, invece, uccise l'amico e i suoi compari. Il killer fuggì da New York e se ne andò in Florida, dove sposò una giovane insegnante ed ebbe numerosi figli. Egli ora viveva la sua nuova vita senza problemi, quando un mattino fu raggiunto da una telefonata: era la mafia. Qualcuno gli spiegò che doveva tornare a New York per restituire il suo antico debito. Il vecchio killer non poté che obbedire. Tornò a New York, e la mafia gli commissionò l'assassinio di un senatore degli Usa. Ai committenti premeva stornare sospetti politici circa questo omicidio, e il vecchio killer sarebbe stato un buon alibi. L'uomo uccise il senatore, ma poi fuggì e simulò di essersi tolto la vita gettandosi con la sua auto nel fiume Hudson.