Gli incontri ravvicinati saranno anche storie che fanno vendere i giornali, ma credete a me, scrivete d’altro. Non torneranno più.

Non è possibile, semplicemente.

I fatti parlano chiaro: sulla costa Atlantica ci sono stati gli avvistamenti più noti degli ultimi quarant’anni, da allora ne sono entrati di giornalisti qui al mio spaccio (e certamente non per comprare crawfish a 80 centesimi la libbra). Intorno alla metà degli anni Cinquanta però la situazione è cambiata. C’è stato il caso di Beauville, poi è finito tutto. E sapete, la cosa strana è che stavolta il governo non c’entra affatto: niente complotti, insabbiamenti, servizi segreti, no.

La colpa fu tutta di Titus Clemens.

Clemens, il tipo che vende hot-dogs all’angolo del Liceo Jackson.

Da noi a Sud, avrete notato, vive un sacco di gente a posto. Bianchi come voi, Cajun, parecchi neri, un po' di ispanici. La maggior parte di queste persone di norma se ne sta tranquilla, ognuno ha le sue zone, i suoi quartieri, e via così. Non tutti comunque la pensano alla stessa maniera. C’è qualcuno che ha ancora le balle girate dai tempi della “Ricostruzione” e va in giro con un cappuccio in testa per difendere la razza bianca cristiana sia dai “non ariani”, che dal governo federale…

È chiaro. Sto parlando delle tre K, il vecchio Ku-klux-klan.

Ufficialmente verso la fine del ‘52 il presidente Truman aveva disperso quasi del tutto i gruppi storici, ma qui a Beuville, gli attivisti del Klan locale ricominciarono a riunirsi dal ‘54 nella distilleria in disuso di mio cugino. Una dozzina scarsa di uomini, quasi tutti agricoltori. Qualche volta, di nascosto, ho visto una loro assemblea. Replicavano i cerimoniali di un tempo, si inventavano gerarchie e cariche: Klonvocations, Klanverna, King Kleagle… a sentirli parlare in gergo sembravano la versione cattiva dei Puffi. Ad ogni modo era gente pericolosa. Razzisti fanatici, non proprio tipi da prendere alla leggera.

Nella notte che ci interessa, il 22 aprile ‘55, la combriccola al completo era in trasferta su un campo fuori dal paese.

C’erano proprio tutti: il fornaio Owens, Sweedie, DuFresne il predicatore, gli sfaccendati del Burton’s Lounge e due tizi nuovi venuti dall’Alabama. Giusto il giorno prima li avevo visti venire nel negozio uno alla volta per comprare petrolio lampante, corde, bourbon e naturalmente scatole su scatole di cartucce da fucile. Conoscendo come vanno certe cose non ci misi molto a capire quel che avevano in mente. Si diceva in giro che un ragazzo nero, il garzone di Mc Phee, fosse venuto alle mani con una banda di teppistelli bianchi. Quelli gli avevano rubato la merce e lui per non perdere il lavoro ne aveva acchiappato uno rompendogli il naso.

Sissignore, con una sola testata: pum!

Che brutta mossa. Solitamente la conseguenza sarebbe stata un pestaggio duro e poi finire caricato su di un merci diretto al nord, ma in quei giorni c’era stato un passaggio di consegne al Klan locale. Il vecchio Sam Crowes, malandato di cirrosi, aveva ceduto la carica di Grande Imperatore e Sigillo di purezza al suo pupillo, un toro scalpitante noto al pubblico come Nelson “Stonebottom” La Crombe.

Ambizioso e pronto a dimostrare ai suoi che non gli mancavano i cosiddetti, Stonebottom fece catturare il garzone e dopo averlo riempito di botte personalmente volle che fosse portato al raduno ben impacchettato e con gli occhi bendati.

I Klansmen dimostrarono con zelo di apprezzare l’iniziativa.

Il Knight watch si tenne in un terreno piuttosto isolato, già usato dal gruppo in precedenti occasioni. Una luna smilza illuminava la statale 26 che tagliava in due i campi fino a sud dove cominciavano le paludi. Le stoppie secche luccicavano sotto la luce della croce in fiamme come se fossero bagnate. Gli uomini a fianco delle macchine sulla strada si erano cambiati in silenzio per andare poi a far cerchio intorno a un palo conficcato in mezzo al campo. Ognuno indossava un tunicone bianco e il cappuccio a cono. Chi non reggeva in mano una torcia accesa, portava uno stendardo.

Titus Clemens era l’ospite della serata. Le braccia incrociate sul palo dietro la schiena, due giri di corda intorno alle mani, si agitava debolmente. Dopo un’ora di urla non gli era rimasta neanche la forza di piangere.

Ai suoi piedi era stato piazzato un mucchio di sterpi con l’idea di affumicarlo un poco. Tutta scena, in realtà sarebbe finito alla svelta con una palla in testa. Molto più efficiente.

Non si sentiva gracchiare nessun uccello notturno, neanche un grillo friniva. C’era solo il mormorio degli incappucciati che salmodiavano un canto tipo religioso.

La Crombe nel suo pastrano rosso sangue pareva soddisfatto. Aveva superato la parte difficile (quella in cui gli toccava fare un discorso che esprimesse più di due o tre concetti) e ora abbaiava gli ordini con una certa pacatezza. La calma del capo.

A un suo comando le fiaccole del gruppo cambiarono tre posizioni – alto – dritto davanti – a lato, mentre qualcuno, probabilmente Fisk, tolse la benda dalla testa di Titus. Il cerchio si stringeva intorno al ragazzo, mancava poco.

Lui, poveraccio, sudava. Con due occhi gonfi e sbuzzati dalle orbite stava a guardare tutto senza perdersi un dettaglio. La croce puzzava di petrolio. Il coro stonato finiva gli ultimi versi, Stonebottom si grattava con calma una natica.

Come ho detto, mancava poco. Dovevano essere passate le dieci di sera

Soltanto una mezz’ora prima la “luce” dell’ultimo, famoso, avvistamento era stata segnalata nei dintorni di Savannah. Solo mezz’ora, forse qualcosa in meno, a più di 750 miglia da qui in linea d’aria.

Incirca alla stessa ora, a Tampa qualcuno sostenne di aver visto la luce dirigersi verso sud-est. Poi, niente. Alle dieci e un quarto la scia volava su Biloxi, dove se ne persero le tracce. Più tardi furono visti degli aerei militari battere svogliatamente il golfo del Messico per allontanarsi sul mare. Pista sbagliata.

A Beauville non ci passa neanche la ferrovia, si saranno detti i bravi aviatori. Perché un velivolo sconosciuto avrebbe dovuto atterrarci?

Già. E perché no? dico io.

Tra i campi, i Klansmen per prima cosa avvertirono il suono. Nel gran silenzio che li circondava (non un alito di vento, niente auto) gli unici altri rumori erano le loro litanie e gli stivali strascicati per terra. Fu dunque molto strano accorgersi di quella nota, una nota sola eppure stranamente melodiosa che veniva fuori dal nulla e avvolgeva tutto il raduno. Gli uomini presero i fucili e cominciarono a guardarsi intorno, allarmati. Quasi subito arrivò la luce. Potente, bianchissima, ma per nulla accecante. Calò dall’alto in una frazione di secondo per formare una cupola del diametro di una dozzina di yarde.

Orten (che da sempre nascondeva di chiamarsi realmente Ortega ) si fece il segno della croce mormorando tra sé – Madre de Dìos…

In tutto il gruppo era quello che si trovava più lontano dal centro, fu lui quindi a distinguere per primo quello che poi chiamò “Carro di fuoco”.

Geniale. Oltre a non essere un carro, quello che vide galleggiare sospeso sopra la testa emanava tutto tranne che fuoco.

Era un’astronave. Qualcosa di così delicato e inconcepibile da sembrare un essere vivente.

Doveva apparire come una cristalliera finissima, incrociata con una medusa o meglio un fiore. Quella cosa infatti non poteva ricordare niente che appartenesse al mondo della meccanica, neppure quella di un veicolo ultra-sofisticato. Lei palpitava… cioè si andava sviluppando immersa nella luce che non bruciava gli occhi, accompagnata da quella nota assordante e armonica. Germogliava antenne, peduncoli, diaframmi sottilissimi che si aprivano dovunque. Per quanto non fosse nulla di mastodontico lasciava tutti inebetiti. Dei grappoli multicolori le si formavano sui fianchi come schiuma di sapone. Dalla plancia respirava, per così dire, gonfiando ritmicamente mantici reticolati, altre parti drizzavano petali con movimenti stroboscopici. Non si vedeva un punto della superficie che non fosse animato e attivo. Scendeva e mutava forma accarezzando l’aria.

Arrivata a cinque yarde da terra, prese a sfaccettarsi come un caleidoscopio mandando riflessi di colori mai visti prima, quindi si fermò.

Davanti allo spettacolo di una bellezza simile, gli uomini lasciarono cadere per terra i fucili che, stranamente, non fecero nessun rumore. Erano tutti alquanto confusi. Gente così, che in una vita intera non aveva mai cacciato il naso fuori dal proprio paese (se non fuori dal quartiere), d’improvviso si vedeva apparire davanti nientemeno che l’universo. E in grande uniforme, per giunta.

Rimasero a guardare.

L’esecuzione, il dannato cerimoniale e tutto il resto divennero un fatto lontano perché quella musica aveva il potere di dilatare il tempo. I movimenti si facevano fluidi, il cuore batteva pochissimo, lo stretto indispensabile. I pensieri andavano alla deriva ognuno in direzioni diverse. Dietro le fronti basse gli uomini non trovavano più il filo degli istinti aggressivi. Il cappuccio a punta non serviva, due o tre se lo tolsero, ma sempre con lo stesso ipnotico scorrere dei gesti, morbido, lento. Una sola emozione collettiva stava prendendo possesso di loro. Non c’erano parole per definirla, non l’avrebbero potuta neanche capire.

La Crombe sconvolto dallo splendore della nave, si inchiodò zitto e muto al suo posto. Essendo dotato dell’apertura mentale di un pit-bull, il suo concetto di realtà stava sbandando tra superstizione e bigotteria. A proposito di sovrannaturale conosceva solo le parole di Padre Ralph: Se per caso incontri il Padreterno o chi per Lui, calati le braghe e adoraLo..

Ciononostante, tentennava.

Orten, favorito dalla posizione, gridò indicando in alto: – È il Carro di Fuoco! Il Carro di Nostro Signore!!! – Fu il segnale.

E così Nelson La Crombe detto Stonebottom, il miglior rappresentante del pianeta di quanto ogni infame carogna figlio di puttana potesse mai produrre in fatto di infamità e figliodiputtaneria, prese una decisione.

– DuFresne… – bisbigliò rauco.

Il predicatore colse l’invito al volo. Usando la voce più tonante e più ispirata che avesse ruggì un formidabile – In ginocchio, fratelli!

In piedi tra il suo gregge improvvisato, con le braccia stese su di loro prostrati a terra, esclamò: – Lo sentite? Lo sentite, gente? Lo sentite, vi dico, quello che sento io? … è amore! È la forza dell’amore questa!!! – Nessuno badò alle sue parole, eppure il pensiero si andava trasmettendo tra tutti come se fosse stata un’onda. Amore! Mugolavano. Il carro di fuoco portava con sé il messaggio del Signore inondandoli di calore e gioia. L’Araldo del Signore lavava le loro anime.

Estasiato, DuFresne smise di parlare per lasciarsi cullare anche lui dal flusso ritmato dai colori intermittenti. I mille respiri della nave si erano infittiti, mentre un cilindro di luce scendeva al suolo, solidificandosi.

Degli arabeschi ampi si andavano disegnando sulla sua superficie e quando un ghirigoro si chiudeva, la zona circoscritta diventava ora traslucida, ora fitta di forellini. Da questi punti si sprigionò una nebbiolina profumata. Ne venne fuori tanta da avvolgere come una sfera la base del condotto.

Ai Klansmen si bloccò il respiro. Quell’apparato, era chiaro, stava lì a significare che l’Araldo era pronto a scendere tra di loro.

– Come abbiamo potuto sguazzare nell’odio e nella violenza? – Tornò a gridare il predicatore. – Sentite questo fumo? Ha l’odore del pane, lo stesso pane che tu, Owens, ogni mattina sforni nella tua bottega… – il fornaio assentì violentemente. Anche Sweedie guardando la nebbia sentiva la testa piena di domande. Perché la violenza? Perché colpire il fratello? Avvertì qualcosa che gli sfiorava il gomito. Era la mano di Crowes che in lacrime gli tendeva le dita e sorrideva. Molti altri stavano facendo la stessa cosa e spontaneamente si afferrarono le mani fino a formare una catena.

La luce nettissima invadeva ogni piega, ogni angolo di corpi e cervelli. Avrebbero dovuto vedersi. I loro visi non erano mai stati tanto bianchi, al tempo stesso parevano ringiovaniti, ripuliti da quelle loro espressioni solitamente feroci. Restavano lì, immobili fra le stoppie ognuno con le braccia aggrappate a quelle dell’altro e ridevano di un riso felice senza alcun suono.

La nebbiolina tremolò sui margini per addensarsi ancora di più nel centro, si poteva a indovinare dentro una forma, no, più esattamente una figura.. Era molto alta, umanoide. I Klansmen ne potevano intravedere le proporzioni perfette, i contorni nudi e levigati. Chinarono umilmente le teste. In quale altro modo poteva essere fatto un angelo? Soltanto così, magnifico. E andava incontro a tutti quanti loro, i fortunati.

La notte era diventata infinita. Lo spirito infinito. Ogni assillo e necessità pratica erano praticamente scomparse. Compreso il povero Cristo al quale si stava per fare la festa poco prima, Titus Clemens.

Nessuno ormai badava più al ragazzo ancora attaccato al palo, e neanche lui badava granché a quell’atmosfera mistica che rallentava il tempo, perché i minuti così dilatati gli permettevano di lavorarsi meglio le corde intorno alle mani. Era un tipo pratico, Titus. Per lui la vita aveva sempre significato due cose: “Farsi un culo così” e “Proteggerlo il più a lungo possibile”, quindi, anche in quel caso lavorava.

Non pensava. Non si sognava neanche di pensare. Doveva approfittare della situazione (ovviamente un miracolo) senza preoccuparsi di capire cosa stesse succedendo davvero. Girando e divaricando i polsi aveva sentito cedere la canapa fibra per fibra, nel frattempo, con gli occhi dilatati non si perdeva un movimento dei Klansmen né quanto distassero dai fucili.

La macchina di Fisk ai margini del campo, era la più vicina, con tanto di portiera aperta. Titus la puntò deciso per accorgersi che i suoi movimenti continuavano ad essere ancora lenti, maledettamente lenti. Quella sospensione adesso lo intralciava rendendogli quelle poche yarde un vero calvario. Faticosamente raggiunse il paraurti, poi una fiancata. Arrivato davanti al posto di guida si sentì più sicuro e per questo esitò per entrare. Come l’adrenalina in corpo si era calmata un poco, il cervello riprese per un attimo a funzionare e con lui tutti gli impulsi che gli facevano da corredo. Nascosto dietro la portiera, Titus sbirciò dal vetro verso quella nebbiolina che si stava gradualmente diradando mentre passava. Forse è meglio che tagli la corda, chi se ne importa… pensò tra sé. Agguantò le chiavi pronto a mettere in moto la giardinetta.

E non lo fece.

La sfera di nebbia che avvolgeva l’essere era diventata quasi del tutto trasparente. Ridotta ad un alone restava intorno a lui senza nasconderne più nulla. Dentro compariva chiaramente la presenza di una creatura slanciata, stilizzata, vagamente diversa, ma con lo stesso numero di dita e di occhi che abbiamo noi. Aveva il braccio sinistro sollevato in segno di saluto e anche se non mostrava un'espressione decifrabile, si capiva benissimo che avesse intenzioni amichevoli.

Titus, guardandola restò a bocca aperta. Definire l’Angelo umanoide non rendeva giustizia alla perfezione delle sue linee, a quel volto cesellato. L’eleganza del portamento, la delicatezza, il modo dolce con cui si guardava intorno faceva sembrare gli uomini come sue rozze caricature. C’era disinvoltura in quell’essere, pienezza nei gesti, al tempo stesso ispirava sicurezza. Pareva evidente come fosse tutt’uno col resto del mondo in perfetta armonia.

Affascinato da ciò che vedeva, Titus scivolava con lo sguardo sul corpo flessuoso, sugli occhi di onice senza palpebre. Poteva avere mille motivi per stupirsi, mille domande da farsi. Fu un solo particolare quello che invece lo colpì.

– Sangue di Giuda, fratello! – Le parole gli rotolarono fuori, veloci, prima che potesse fermarle. – Sei nero, ma proprio nero-nero-nero, che mi prenda un cànchero di accidente !!!

Precisa come una freccia, questa frase infelice trapassò il silenzio e la nota melodiosa per raggiungere tutti gli uomini che restavano immersi nella cupola di luce.

I Klansmen girarono la testa distratti dall’interruzione e videro Titus, che avevano completamente dimenticato. Subito dopo tornarono a guardare il loro meraviglioso Araldo che, effettivamente, appariva più nero di un tizzone carbonizzato in una notte buia, poi infine si guardarono tra loro, turbati. Per un attimo, non ci furono altri suoni. Nel silenzio abbagliato sulla faccia di Nelson La Crombe comparve un colore nuovo. Un rossore che saliva su dal collo fino a diventare cremisi e poi violetto. La sua bocca schiumò un poco mentre tentava di dire qualcosa. Emerse un balbettio troppo roco e basso per essere udito. – E che…? Ecchéstà…? E noi che…? –

Poi esplose a pieni polmoni: – Branco di conigli senza-palle, voglio che facciate a pezzi quel fottutissimo culo marziano e voglio che lo facciate SUBITO!!!

L’essere nella nebbia non ebbe il tempo di reagire né di svignarsela perché Orten gli fracassò il cranio col calcio del fucile usato a mo’ di clava. Automaticamente altri due scattarono dando fondo ai loro automatici per crivellare di colpi a casaccio sia l’alieno che la nave. Crowes si affrettò a ficcarsi in testa il cappuccio mentre DuFresne restava ancora disorientato, preso dal suo ruolo sacerdotale e venne spinto via da Sweedie, Owens e Fisk che saltavano a piedi uniti sullo spaziale. Colpita da una scarica di cinque fucili a pompa, una porzione della fiancata mandò un inferno di scintille e si staccò dall’astronave. Più di metà delle antenne appassirono accartocciandosi mentre cadevano a terra, proprio dove il sangue della creatura in poltiglia era diventato vapore a contatto con l’erba secca.

La Crombe gridò – a meee! – Sovrastando tutti, con le braccia che mulinavano un grosso palo in fiamme. Lo ficcò con forza in una finestra del condotto che prese fuoco dall’interno e mandò su una bolla vermiglia a raggiungere la plancia della nave. Tutte le superfici che apparivano trasparenti, si annerirono esplodendo frantumi e scintille. Eccitati dall’incendio, gli uomini spararono a volontà distruggendo le complicate foreste cristalline. Tutta la nave perse di assetto crollando giù in un suono stranamente attutito.

Quasi tutti, tranne i più arretrati, rimasero schiacciati sotto i rottami, per uscirne fuori solo un attimo dopo vivi e sghignazzanti.

– Non pesa un cazzo di niente!!! – Gongolò Simmons nel tirarsi fuori da una parete lacerata. Con le mani nude strappava via intere sezioni che venivano via come se fosse carta. Tutto ciò che somigliava ad un oblò fu sfondato a calci, poi ci fu un fuggi-fuggi collettivo perché sul relitto si produssero un po' ovunque una serie di micro-esplosioni sbuffate come dei geyser.

La Crombe allora fece allontanare i suoi con autorità per accostarsi da solo sul lato inerte della carcassa. Ci versò sopra diversi galloni di petrolio lasciando che una scia lo seguisse nel campo come una lunga miccia.

Stringendo gli occhi si fece accendere un sigaro che lanciò dopo due boccate sulla linea lucida del carburante. Mentre la fiamma avanzava rapidamente disse a voce ben alta: – Con gli omaggi del Klan, in culo a Marte, a Giove o a qualunque altro sia il vostro merdoso pianeta di degenerati neri. Amen.

L’esplosione fu immediata. Fece sollevare una nuvola densa e scura unita ad una vampata di calore tanto forte quanto breve, che sparì in un attimo. Frammenti minutissimi misti a cenere piovvero dappertutto per miglia. Sotto, gli uomini un po' abbrustoliti ma entusiasti, urlarono sbracciandosi selvaggiamente. Qualcuno pisciò sui residui ancora arroventati. Nelson La Crombe venne portato in trionfo alla macchina. Da lì alla Klansverna tutta la banda non avrebbe fatto altro che bere e bere, tanto da restare ubriachi per tre giorni buoni.

Andò a finire così l’incontro più ravvicinato del secolo.

Quando i Klansmen provarono a vantarsene in giro, non ebbero molto credito. Un campo incendiato ed una sbronza colossale non sembravano dimostrare granché, per cui la faccenda passò inosservata e della luce misteriosa finirono con interessarsi solo i giornalisti e qualche raro svitato.

Se dovesse venirvi voglia di andare al campo oggi non ci troverete nulla, vi avviso. È passato troppo tempo e quest’anno lo hanno messo su a maggese. Ci si incontra più letame di vacca che relitti spaziali.

Titus?

Ve l’ho detto, abita giù in fondo alla strada. È lui che mi ha raccontato tutta la storia. Nel ‘61 è tornato a vivere qui, dopo che si erano un po' calmate le acque. A vederlo sembra più o meno lo stesso, solo ha un problema, è ossessionato.

Anni fa gli ho venduto un baracchino da radioamatore e da allora sta lì tutte le notti a trasmettere. Poveraccio, il segnale arriva meno lontano di uno sputo di vecchia, ma lui ignorante com’è crede che sia potente quanto un radiofaro. Ci prova sempre e sempre. Spera che qualcuno nello spazio lo ascolti, invece lo sente solo mezzo quartiere quando disturba le frequenze della WRTO.

Restate in zona stasera e lo potrete intercettare anche voi. Basta che mettiate la radio sui 205 per giocare con la sintonia qualche tacca in su e giù. In mezzo alle scariche e le interferenze sentirete una voce fantasma un po' lagnosa. È la sua.

Da trent’anni dice sempre la stessa frase. Non fa altro che ripetere alle stelle:

– Qui Titus chiama spazio, Titus chiama spazio… sangue di Giuda, fratelli, scusatemi!