Il gruppo di aviani aveva smesso di battere contro la fian­cata dell'astronave, e si era andato ad acquattare fra le rocce. Gli indigeni si dimostrarono allarmati, timorosi, ma non spa­ventati.John Wheeler proseguì con lentezza verso di loro, e si fermò in posizione ben visibile.

Gli aviani non erano fuggiti, e questo era già un segno positivo.

Faceva terribilmente caldo. John si pentì di non avere preso qualcosa per ripararsi la testa. Si chiese quanto tempo avrebbe dovuto aspettare, e se la sua tattica sarebbe servita a qualco­sa... Notò che alcuni indigeni, dai loro nascondigli, avevano cominciato ad alzare la testa e a drizzare il collo tremolante.

Una... due... tre macchie bluastre sopra uno scenario rosso incendiato. Un bagliore luminoso filtrava, rossastro e carnoso, attraverso le sue palpebre chiuse, incandescente globo del sole di quello strano mondo popolato da esseri simili agli uccelli ma che si muovevano e ragionavano come uomini.

Nella capanna, Wheeler se ne stava sdraiato sopra un letto di frasche. Era quasi un peccato aprire gli occhi. Il tocco solleticante di un dito piumoso gli salì lentamente lungo il setto nasale. No davvero, non aveva fatto molti progressi nello studio della lingua degli aviani. Esisteva una difficoltà: una gola umana non aveva certo la struttura adatta per riprodurre quei chiocciolii e quei fitti pigolii con i quali gli indigeni comunicavano fra di loro. Comunque, John riusciva a inten­dersi benissimo anche a gesti.

John Wheeler, il terrestre, la creatura scesa dal cielo in un grande uovo di metallo, l'essere-prodigio, aspettava.

Per oltre una settimana era stato al centro di una curiosità dapprima esitante e imbarazzata, poi sempre più franca e invadente. Gli aviani erano venuti dai villaggi vicini, per vederlo e osservarlo. Lo avevano palpato e rigirato in tutti i sensi, con le loro bizzarre dita piumose. Poi, improvvisamente, John era sembrato diventare un elemento assolutamente nor­male della loro esistenza. Avevano cominciato quasi a igno­rarlo. Tutti gli passavano accanto quasi senza vederlo più.

Tutti meno quella femmina che gli si era piazzata alle costole. Già, umanoidi... In fondo era soprattutto un termine tecnico, si diceva Wheeler. Ma al diavolo quei professori di biologia e le loro classificazioni complicate e sostanzialmente fasulle.

Evoluzione parallela, e sta bene. Dicevano: “Un essere, per sviluppare un'intelligenza di tipo umano, deve possedere de­terminate dimensioni, la stazione eretta, gli arti anteriori prensili, la visione binoculare... esso sarà allora un umanoide.” Ma, dannazione ai biologi e ai naturalisti, erano limiti entro i quali era possibile una variabilità enorme... Umanoide! Wheeler non si sarebbe mai sentito disposto a considerare un essere quasi simile a lui un rettiloide gark, oppure uno di quei grigiastri kijab. Un suo amico aveva passato sei mesi a studiare i kijab, e come risultato era quasi impazzito.