Jeliza-Rose ha undici anni e una situazione familiare disastrata. Suo padre Noah è un ex cantante rock in disgrazia e con sua madre, una ex groupie annegata nel vuoto della propria esistenza, l’ha cresciuta tenendola lontana dalla scuola, sottoponendola a un’educazione autarchica a base di letture disordinate e dosi industriali di TV. Costretta a sopravvivere, Jeliza-Rose ha imparato ancora bambina a preparare le dosi di eroina per i suoi genitori, interrompendo la visione di documentari su fatti improbabili per dispensare cure e massaggi alla madre abulica in cambio di insulti e di botte.

Il suo è un mondo da incubo ma l’immaginazione la aiuta a tingerlo di incanto. Quando la madre muore di overdose, con la legge alle calcagna il padre la trascina via da Los Angeles, in un avventuroso viaggio in autobus alla volta della Danimarca. La loro assurda ricerca dello Jutland si arena tuttavia nella prateria texana ai bordi del deserto. È  qui che si leva dai campi di sorgo la tenuta cadente acquistata da Noah per sua madre, venti e passa anni prima. E da più di dieci anni Senti come dondola, come l’aveva battezzata la vecchia, è disabitata, covo di scarafaggi, formiche e scoiattoli. Mentre il padre sprofonda in una trance senza uscita, Jeliza-Rose comincia a materializzare le proprie fantasie con l’aiuto delle teste malandate di quattro Barbie smembrate e delle loro voci particolari, ciascuna espressione di un diverso aspetto della sua complessa personalità, inventandosi giorno per giorno occasioni di divertimento e di intrattenimento.

La storia che Mitch Cullin racconta rifugge le insidie della regressione della memoria, a cui pure si presterebbe un viaggio con le caratteristiche del ritorno alle origini. Le uniche tracce di ricordi sono i frammenti affilati come schegge che emergono dalla scena devastata e dai corpi sfregiati, quasi che solo i relitti di antichi cataclismi e le ferite mai cicatrizzate potessero parlare del passato. Questa scelta è la scommessa vinta dall’autore, la cui narrazione sa essere toccante e crudele allo stesso tempo e ha il pregio di scorrere a mille, con l’immediatezza di un racconto orale. A renderla tanto efficace è la capacità di Cullin di dar voce alla piccola orfana, calata in un mondo alieno che viene all’improvviso preso d’assalto dai suoi stessi sogni, in un moto quasi istintivo di reazione alla marea di orrore montante nella realtà.

Con poche pennellate incisive Cullin riesce a cogliere attraverso i suoi occhi gli elementi caratterizzanti del paesaggio rurale del Texas e a stravolgerlo, calandolo in un’atmosfera onirica: le lucciole (“[…] erano le mie amiche supersegrete. E Classique non avrebbe mai capito il loro linguaggio lampeggiante”) intessono l’abito delle sere intorno alla casa colonica in abbandono, le notti trascorrono scandite dal faro stroboscopico del ripetitore a microonde che veglia sulla proprietà e sulle fantasie di Jeliza-Rose come una sentinella di metallo, premonitrice sinistra di un’apocalisse in sintonia con la sensibilità di J.G. Ballard. Come il cantore inglese delle catastrofi postmoderne trasfigurava l’alienazione surrealista e metafisica nei suoi scenari, allo stesso modo Mitch Cullin si rifà alla pittura del pittore realista Andrew Wyeth per evocare dalla desolata e squallida quotidianità della provincia rurale un’atmosfera da cataclisma imminente. A un certo punto è come se i personaggi stessi invocassero il disastro, la fine del mondo, quasi rendendosi conto che questa è la sola via d’uscita praticabile per la loro storia.

Forse questo è il limite maggiore dell’opera, che resta comunque apprezzabile ben al di là del tentativo di riscrittura delle avventure archetipiche di Alice nel Paese delle Meraviglie. Se la prima metà del libro è in sostanza il racconto dell’infanzia e della solitudine di Jeliza-Rose, movimentato dai ricordi della sua triste vita in famiglia, dalle sue esplorazioni alla scoperta degli angoli nascosti di Senti come dondola e dei campi circostanti, dalle infiltrazioni esterne che scivolano nella sua percezione del mondo attraverso l’esperienza televisiva e il ricordo delle deliranti storie paterne, la seconda metà diventa una storia d’amore e di terrore, che si anima di figure grottesche e ambigue capaci di inattesi slanci umani e di altrettanto improvvise efferatezze. Attraverso gli incontri con uomini delle fogne, scoiattoli famelici e fantasmi pallidi e orbi, sotto la minaccia di squali d’acciaio e api assassine, la scoperta del mondo da parte della piccola Jeliza-Rose coincide con la sua scoperta della vita attraverso il prossimo. In un mondo popolato da freak, questo getta poco alla volta nuova luce sulle certezze acquisite, finendo per stravolgerle come accadrebbe con le epifanie improvvise che catturano l’immaginazione di una undicenne, capovolgendo l’universo in una prospettiva che ha folgorato lo stesso Terry Gilliam, il visionario regista britannico (Brazil, L’esercito delle 12 scimmie) che nel 2005 ne ha tratto un adattamento omonimo con Jeff Bridges e l’attrice-rivelazione Jodelle Ferland.

A un certo punto del suo racconto, Jeliza-Rose osserva la sua compagna di avventure Barbie Classique e dice: “La guardai in viso, con quelle sue ciglia lunghissime. Mi chiesi chi le avesse staccato la testa. Mi chiesi chi poteva aver fatto una cosa simile a una bambola”. È un passaggio paradigmatico della condizione in cui viene catapultato il lettore dalla scrittura di Cullin, angosciante come una favola nera, coinvolgente come un gioco. E come una favola e ancor più come un gioco, fondata su regole che il lettore si ritroverà a scoprire lungo la strada. A sue spese, fino all’epilogo che suggella una storia tesa ed elegiaca, penalizzata solo dalla gabbia di una struttura troppo rigida nella sua volontà di ricondurre nei binari del realismo i sussulti dell’immaginario e della fantasia.