L'approccio interdisciplinare all'analisi dei problemi scientifici è ormai prassi consolidata nel mondo della ricerca specie di frontiera, dove nulla è mai come sembra. Se ne è avuta dimostrazione al Festival della Scienza, da poco conclusosi a Genova, che nella sua ultima giornata ha presentato una delle conferenze più interessanti e curiose.

Se vi dicessero che l'universo è una canzone? E una canzone jazz, per giunta? L'idea di una musicalità cosmica si è fatta strada nella fantascienza già da tempo, e la ricerca è arrivata a confermare questa intuizione. Per farlo si sono dovute abbinare due discipline parecchio diverse quali le neuroscienze cognitive e la cosmologia, oltre a una sana passione per il jazz del leggendario John Coltrane, uno dei più grandi sassofonisti della storia. A unire le forze nel tentativo di costruire questo ponte tra scienze e arte sono stati Stephon Alexander, uno dei più giovani e brillanti astrofisici in circolazione, e Jason Mitchell, anch'egli molto giovane e già da anni affermato ricercatore ad Harvard nel Laboratorio di Neuroscienze Sociali. I due, newyorchesi (ma Alexander è originario di Trinidad) e amici da sempre, hanno usato una parola magica come ponte tra le rispettive discipline: percezione.

Il lavoro di Mitchell si è basato sull'utilizzo dell'imaging a risonanza magnetica (neuroimaging), allo scopo di costruire una mappa del funzionamento del cervello che permetta di rispondere a una domanda: quando si presentano due fenomeni contemporanei, il cervello li tratta come fossero un unico processo cognitivo o come due (o più di due) processi separati? Per analizzare il problema Mitchell ha paragonato il cervello all'hardware, e la mente al software; mente intesa come insieme di processi psicologici e cognitivi che interfacciano il cervello con l'ambiente esterno. Illustrando i risultati del neuroimaging su alcune zone del cervello (corteccia prefrontale, laterale e posteriore), Mitchell è arrivato a definire una teoria per la quale il cervello attiva processi specializzati e indipendenti per elaborare gli stimoli percettivi. Si distingue così la percezione di un fenomeno dalla sua interpretazione, che Mitchell chiama "immaginazione", la quale è una facoltà che la mente sviluppa in relazione con altri cervelli secondo un modello non diverso da quello del web. La dimostrazione di questo comportamento, definito "dissociazione", consiste nel fatto che nei periodi di sonno, mentre la corteccia specializzata nell'acquisizione di percezioni visive è in stato di quiete, la corteccia specializzata nell'interpretazione continua a essere in attività, elaborando informazioni e costruendo un universo che la mente usa come riferimento per l'interpretazione degli stimoli che riceve. Secondo Mitchell l'approfondimento dell'analisi del neuroimaging, unita all'utilizzo del PET (tomografia a emissione di positroni) permetterà di costruire una mappa non più del cervello ma bensì della "mente", aiutando quindi a capire in che modo percepiamo la realtà.

A questo punto subentra l'estroso Alexander e la sua conoscenza della struttura dell'universo. L'astrofisico parte dalla constatazione che la nostra percezione "statica" dello spazio è illusoria: la relatività di Einstein ha infatti dimostrato che lo spaziotempo ha una struttura dinamica, poiché in corrispondenza di una grande quantità di massa (una stella o un pianeta) esso si curva. Alexander mette poi in campo le sue ricerche sull'energia oscura, uno dei temi più affascinanti della cosmologia moderna. L'energia oscura è una forma di energia ipotizzata dai fisici, per spiegare sia l'espansione accelerata dell'universo che la discrepanza tra la quantità di materia osservata e quella calcolata, corrispondente secondo alcuni a ben il 90 percento del totale. La presenza di energia oscura, che riempirebbe l'intero universo, permetterebbe di colmare le lacune della teoria classica de Big Bang, ma ci sono ancora dubbi sulla sua natura. Secondo Alexander l'energia oscura avrebbe natura ondulatoria; la sua esistenza potrebbe pertanto essere dimostrata indirettamente attraverso la misura delle onde gravitazionali, previste da Einstein come effetto della distorsione dello spaziotempo.

Stephon Alexander nella Jam session finale (fonte: festivalscienza.it)
Stephon Alexander nella Jam session finale (fonte: festivalscienza.it)
Ma che c'entra il jazz in tutto questo? Intanto è la grande passione di Alexander, soprattutto con riguardo a Coltrane. Il quale era a sua volta affascinato dalla cosmologia tanto da dedicargli uno dei suoi ultimi dischi, Interstellar Space. Si racconta che durante una conversazione con Davie Liebman, altro grande musicista, Coltrane si pose il problema dell'espansione dell'universo. Alexander, nelle sue ricerche, ha assimilato le onde gravitazionali ad altri fenomeni ondulatori come le onde sonore. La trasmissione a distanza delle onde sonore emesse da uno strumento musicale avviene convertendole in onde elettromagnetiche,  per poi essere riconvertite in onde sonore, ricostruendo così l'informazione originaria che viene "percepita" (nel senso indicato da Mitchell) dall'ascoltatore. Onde elettromagnetiche di cui è costituita anche la radiazione cosmica di fondo, effetto del Big Bang e che viene normalmente rilevata attraverso una mappa di colori. Alexander sostiene che le onde gravitazionali sono misurabili analogamente alle onde elettromagnetiche, costruendo pertanto una mappa di colori corrispondenti a ogni frequenza d'onda. Le informazioni che restituisce questa mappa presentano sorprendenti analogie con le informazioni delle onde sonore.

In sostanza l'universo è attraversato da una sorta di "risonanza" del tutto simile a quella prodotta da un qualsiasi strumento musicale. E' possibile costruire una mappa a colori (Alexander lo ha fatto), verificando che ci sono risonanze diverse corrispondenti a diverse regioni dell'universo. Le onde di risonanza permetterebbero di determinare le dimensioni dell'universo e la sua morfologia, poiché in presenza di intensità diverse si verificano aggregazioni di materia con conseguente distorsione dello spaziotempo. Per Alexander le onde di risonanza sono un altro effetto del Big Bang e costituiscono la dimostrazione dell'esistenza dell'energia oscura. Alexander ha anche stimato la frequenza della risonanza: circa 220 Hertz, corrispondente a un La maggiore. Pertanto questa sarebbe la frequenza di espansione dell'universo.

Il percorso, ardito, che collega uno dei misteri della cosmologia al modo in cui percepiamo la realtà si è completato. Il nostro cervello non può percepire la risonanza dell'universo ma la nostra "mente", attraverso l'elaborazione di un'interpretazione deduttiva della realtà, è in grado di cogliere le analogie con altre esperienze cognitive. Analogie alla base del volo teorico di Alexander. Al termine della conferenza l'astrofisico si è cimentato in una session al sax soprano, tutta in La maggiore; per dimostrare che se l'universo è una canzone, forse basta tendere le orecchie e lasciarsi portare dall'immaginazione per capire che l'energia oscura, in fondo, tanto oscura non è.