“Maledetto pianeta” pensò di nuovo “come si fa a vivere in queste condizioni?”.Andò in bagno. Guardandosi allo specchio, notò che la barba gli stava spuntando. Purtroppo aveva dimenticato il Fuxus all’astronave e ora doveva rassegnarsi a utilizzarlo al suo rientro. Per fortuna che la crescita ne era stata comunque rallentata. Fu una gradevole sorpresa accorgersi che c’era dell’acqua corrente. Era anche calda. Finalmente un po’ di civiltà. Armisel (così si chiamava la sua ospite) gli spiegò di avere la fortuna di trovarsi molto vicina ad una sorgente naturale di tipo termale e di aver approfittato della situazione. Fra non molto avrebbe installato anche l’impianto di riscaldamento.Dopo un’abbondante colazione da lei preparata, Henry si rivestì. Lasciò il denaro pattuito sul tavolo accanto ai resti di quanto aveva consumato. Promise alla donna che se gli fosse stato possibile, fra qualche giorno, sarebbe passato nuovamente da lei. Poi andò via.

Raggiunse, a passo spedito, il suo alloggio. Aveva perso del tempo passando la notte fuori, ma ne era valsa la pena.

Il giorno prima aveva noleggiato un’auto, una vecchia quattro per quattro. Non si poteva pensare di raggiungere l’area mutante senza averne una. Le strade erano pessime. Di macchine volanti neanche a parlarne, qui non sapevano nemmeno cosa fossero. Caricò il suo bagaglio e la merce sul retro del veicolo. Si assicurò di aver ben chiuso la porta di casa. Salì a bordo.

Sperava di arrivare a destinazione nell’arco della mattinata, ma era convinto che avrebbe trovato degli intoppi e che ci avrebbe messo di più.

Le prime due ore di tragitto volarono in un soffio. Il panorama montano era bello. Lalande, che continuava a salire nel cielo, dava all’aria lì intorno un che di primaverile. Le cose sarebbero cambiate superate le montagne. Da quel momento sarebbe entrato in una zona ad alto rischio.

Così fu. Dopo un’altra ora, mentre le alture si allontanavano alle sue spalle, il territorio cominciò a mutare. Una vasta area desertica si estendeva davanti a lui. Alberi brulli e rinsecchiti, dove forse si era tentato anche un rimboschimento, ma senza alcun successo. Scheletri di animali morti, forse di fame o di sete. Non c’era forma di vita in giro. Un panorama desolante. Non un altro uomo, non un’altra auto. Solo lui e il nulla.

Si domandò se non fosse giunto il momento di indossare l’equipaggiamento in suo possesso. Più per pigrizia che per convinzione decise di proseguire, anche con la certezza che prima o poi avrebbe trovato dei cartelli preannuncianti il pericolo. Come si sbagliava, non era sulla Terra!

La sua fortuna fu di avere con sé il rilevatore geiger che poco alla volta iniziò a crepitare. Al minimo accenno fiutò il pericolo. Indosso la tuta ermetica di gran fretta, sperando di non essersi esposto troppo e proseguì. Doveva esserci quasi.

Guidò ancora per una buona mezz’ora prima di avvistare il confine di Artemide sud con l’area mutante, definita anche “Area senza nome” giacché tutti gli abitanti del pianeta avevano paura di nominarla.

Un altissimo muro di cemento armato di circa venti metri, si ergeva davanti a lui. Lo costeggiò dal lato destro, in cerca di un varco. Si era ripromesso di percorrere cinquanta miglia e poi tornare indietro per provare la direzione opposta.

Si pentì di non aver chiesto informazioni più dettagliate prima di partire. Forse la stessa Armisel avrebbe saputo dirgli qualcosa in più. Grazie alla sua superficialità stava solo perdendo tempo. Respirava ormai dalla minibombola. L’autonomia era lunga, circa ventiquattro ore. Ne aveva anche un paio di ricambio che sperava di non utilizzare. Prima avrebbe concluso il suo affare, prima se ne sarebbe andato.