Fringe è un’avventura nella frontiera. La frontiera della scienza, ma non solo. È un’avventura nella frontiera della chimica, della fisica e della psicologia e della patologia degli esseri umani. Rappresenta un’incognita rispetto alla capacità di comprensione razionale. Ritorna il tema essenziale espresso dal romanzo Stanislav Lem: spostare sempre più in là la soglia della ricerca scientifica equivale ad avvicinarsi al limite della capacità di comprensione razionale degli eventi. Fringe mette di fronte lo spettatore a fenomeni scientifici che sforano nel fantastico e nell’oscuro, che mettono alla prova gli strumenti della logica razionale e la stessa capacità di adeguarsi della ragione umana. Ma a differenza di Solaris, che trovava alternativa all’incapacità di comprensione nella forza dei sentimenti, in Fringe non c’è nemmeno questo aspetto. Lo Schema, da rete che connette fenomeni apparentemente inspiegabili, si trasforma in ragnatela che imprigiona chi vi si avventura senza precauzioni. La logica è costretta a sfidare sé stessa, a inventarsi percorsi nuovi senza alcuna possibilità di capire quale sia la giusta direzione. Lo stesso Walter Bishop, con il suo eccentrico miscuglio di ragionamento parallelo e scatto poetico, rappresenta a sua volta la “frangia” dell’umanità, una possibile evoluzione dell’essere umano da creatura composta da ragione e irrazionale, a essere multidimensionale, in grado di viaggiare tra universi paralleli nei quali le leggi della fisica si piegano e si ricompongono, in un impasto di soggettività che farebbe invidia al miglior Philip K. Dick. E, in ultima analisi, è proprio l’eco di Dick che si fa sentire nelle sequenze di Fringe; un omaggio probabilmente involontario allo scrittore di Chicago, ma forse il migliore possibile.