Che la fantascienza moderna sia un prodotto di stampo anglosassone viene dato normalmente per scontato. In realtà la storia è molto più sfaccettata di quanto le cronache riescano a rendere, e le sfumature che il genere ha conosciuto nelle sue scorribande intorno al globo gli attribuiscono una variabilità che rispecchia quelle dei paesi in cui ha trovato terreno per attecchire. Ciò con riguardo soprattutto alla letteratura fantascientifica, che in Europa occidentale e orientale, nonché in Sudamerica, è riuscita a compiere un’operazione di localizzazione, trovando declinazioni e punti di vista originali che hanno avuto, a tratti, anche la forza di imporsi a livello internazionale.

La fantascienza ha avuto invece meno possibilità di localizzarsi in campo cinematografico, dove lo strapotere economico e la capacità produttiva della macchina hollywoodiana ha finito con l’imporre un certo standard a “stelle e strisce”. Una fantascienza impostata su un modello “americanocentrico”, figlia della cultura e dei miti di quella nazione e che, dall’avvento del primo Guerre Stellari del 1977, si è ulteriormente giovato della virata del genere verso un uso sempre più massiccio di effetti speciali sofisticati, possibili solo in presenza di cospicui investimenti finanziari.

Il resto del mondo si è quasi sempre accodato, sia da parte dei maestri della cinepresa che dai mestieranti dediti ai b-movie; le poche eccezioni, riguardanti per lo più la cinematografia dell’est europeo in un contesto di competizione da guerra fredda, raramente hanno trovato fortuna oltre i confini nazionali. A questo andazzo non si è sottratto il cinema italiano, in cui la quasi totale aderenza al modello americano è stata interrotta solo in rare occasioni da contaminazioni di tematiche più nostrane. La recente dichiarazione di Gabriele Muccino, in questo momento forse il regista italiano più conosciuto negli USA, di volersi dedicare a un progetto fantascientifico, fornisce l’occasione per qualche analisi su come la fantascienza si è inserita nel cinema tricolore.

 

L’inizio del viaggio

Va detto che se la fantascienza cinematografica moderna è ormai interamente americana, gli esordi sono stati francesi: Viaggio nella luna, storico film del 1902 di Gorge Melies, che ha messo su pellicola la galoppante immaginazione di Jules Verne. L’impressione suscitata dal film fu tale che subito nacquero in giro per il mondo varie imitazioni; quella italiana risalente al 1910, Un matrimonio interplanetario, diretta da Enrico Novelli, già scrittore e fumettista noto con lo pseudonimo di Yambo, mette subito in chiaro quale sarà la tendenza nell’interpretazione nostrana del genere. La cultura italiana è infatti lontana dal modello illuminista francese, che influenzerà poi la visione positivista e razionale della successiva fantascienza americana. In Italia prevale un tipo di racconto che, nel momento in cui si allontana dai canoni di un realismo pieno, privilegia le atmosfere del surreale, del grottesco e del paradossale, piuttosto che dell’avventura scientifica in senso stretto. La storia raccontata nel film di Novelli, un terrestre e una marziana che si innamorano via “telescopio” e decidono di sposarsi sulla Luna, è infatti il pretesto per il trasferimento di uno schema da romanzo popolare in un ambito che di fantascientifico ha solo l’apparenza. Come pretesti saranno i successivi tentativi del 1922 (L’uomo meccanico di Andrè Deed), del 1924 (La bambola vivente di Luigi Magni), per arrivare al primo film di genere sonoro, 1000 chilometri al minuto, diretto nel 1939 dal veterano Mario Mattoli, autore di molte commedie farsesche che non si smentisce nemmeno con questo film (la storia di due disastrati inventori che provano a raggiungere Marte senza riuscirci).