Non ricordo bene quando cominciai a correre. Deve essere stato in un’altra vita, quando ero ancora qualcuno che aveva un nome e un volto, quando mi sentivo chiamare e potevo chiamare qualcuno che mi rispondeva.

Deve essere stato quando ero ancora in vita.

Non che ora non sono in vita, ma non posso vivere senza correre. Senza raggiungere una meta che non conosco neanche esistere.

È una sinfonia dolce amara che ingoio ogni giorno mettendo innanzi a me una strada che deve pur finire da qualche parte. Laggiù lontana, verso l’orizzonte che non ho mai raggiunto per quanti sforzi faccia.

Correre mi rende diverso dagli altri. E già, perché intorno a me non si muovono cose e immagini che io non muova, correndo. Mi sento come la mano invisibile di un dio che sposta le cose perché le cose si spostano da lui. Ecco venirmi incontro qualcosa che, superato di slancio, vedo allontanarsi dietro di me, e così la assisto muoversi senza che essa si sia mossa di un solo centimetro.

L’asfalto rubato alla terra si sgretola sotto di me e si ritrae come se il tempo lo levigasse fino a farlo scomparire. Le piante lo inabissano nella dimenticanza, evidentemente la Terra deve aver imparato a ingoiare il superfluo.

Ho provato ad aggiustare il mondo. Ma non mi è rimasta altra alternativa che fuggire, perché il mondo non ne voleva sapere di essere aggiustato. Quando tutto è accaduto e la vita non è più esistita, ho visto che non esisteva altra cura che allontanarsi, fuggire dal dolore e dalla distruzione.

Vi giuro, ho provato ad aggiustare il mondo, ma il mondo non ne ha voluto sapere di essere aggiustato. Ho inseguito la soluzione, mi sono reso ridicolo e patetico, ma nessuno mi ha ascoltato. Devo aver commesso qualcosa di insanabile per non essere preso sul serio.

Ma io ci proverò lo stesso. E correrò fino allo svenimento incontro alla soluzione, mentre il mondo, come detto, si sgretola intorno a me.

Mi chiamo Tom, ed ho appena distrutto la vita sulla Terra.

***

Se devo ricordare la mia vita a ritroso nel tempo, non posso non constatare che qualunque mia previsione, qualunque mia supponenza, ogni cosa che ho temuto, si è puntualmente avverata.

C’è chi chiama questa paranoia. Io la chiamo coincidenza.

C’è chi esprime dubbi e perplessità. Io mi limito a guardare ai fatti.

Quindi, quando stanotte ho sognato che il mondo era troppo pieno di problemi per sopravvivere a sé stesso, non mi sono sorpreso più di tanto, quando al risveglio non ho ritrovato più nessuno.

Nessuno, e dico nessuno.

In verità non era la prima volta che al risveglio non ritrovavo più nessuno. Era accaduto quasi due anni fa. Io e mia moglie non eravamo proprio innamorati, non almeno di quell’amore che fa cadere le braccia e scalda il letto. Ma, comunque, vivevamo bene insieme ai nostri tre figli, in quella piccola casa in fondo al paese, proprio dove inizia un altro paese, al limite, insomma, al confine.

Poi mia moglie un giorno mi aveva fatto notare come triste e noiosa fosse la nostra convivenza, mio figlio maggiore come non ero mai stato un padre degno di questo nome, e le mie due figlie, gemelle, non ricordo ancora cosa mi avessero detto di preciso, ma ricordo bene che me ne ero andato a dormire con la precisa sensazione che l’indomani non avrei ritrovato nessuno di loro. Come dire? Sentivo decisamente il loro odio ricoprirmi il volto, inzupparmi le mani. Lo sentivo e prevedevo il distacco. Lo prevedevo eccome.

E così fu. In quella casa al confine tra due paesi, mi ritrovai solo. Completamente solo. Nella grande cucina voluta da mia moglie, con una colazione mezza consumata da lei e dai miei figli, abbandonata alle formiche. Non avevano neanche avuto la decenza di svegliarmi. Se ne erano andati via alla francese, già con savoir faire.

Ecco perché, quando mi sono reso conto che tutta l’umanità era sparita, non ne rimasi troppo sorpreso. Io prevedevo il futuro, i miei sogni erano premonitori. Se, come detto, avevo sognato e pensato che il nostro mondo pieno di problemi non potesse sopravvivere, allora, cavolo, doveva essere così.

Quando uscii nella veranda, proprio nella mia veranda, in quella casa che abitavo al confine di due paesi. Non vidi nessuno. Il cielo ero giallognolo, come la muffa su un muro, provocata da un tubo fognario lesionato. Le nuvole, sporche, grigie, informi. E la strada deserta.

Non si vedeva anima viva. Neanche un uccello in cielo. Neanche un cane. O forse sì, forse un cane si vedeva. Carco e magro, pulcioso e lontano. Latrava come un segugio che aveva perso la preda.

Fu allora che iniziai a correre. L’avevo previsto, d’altronde. Mi ero detto: “Cavolo, se sei solo e abbandonato, sicuramente fuggirai.” E chi avrebbe potuto darmi torto, se fossi fuggito?

Correre lungo strade dritte e solitarie. Verso montagne irraggiungibili, verso spazi enormi. Con un cielo sempre più giallo e nuvole sempre più grigie. Se fosse stato un sogno, avrei volentieri voluto sognare in bianco e nero. Quel guazzabuglio di colori mi rendeva tutto più difficile, maledettamente difficile. Poi, c’era anche l’aria. L’aria era rarefatta e, anch’essa, colorata. Colorata di un lieve azzurro pallido. Quasi respirassi sprazzi di mare, quasi respirassi sprazzi di cielo. L’aria aveva consistenza e colore.

Al quarto o forse, dico forse, al quattordicesimo giorno di corsa, mi resi conto che in una casa, proprio ai bordi della strada, dove un ampio spiazzo divideva l’asfalto dai campi coltivati, vi erano alcune tracce di vita. E mi fermai.

Mi fermai, dico, non è che non mi fermavo mai, non ero poi così pazzo, almeno non ancora. Quindi mi fermai per guardare meglio. Avevo previsto, o se lo avevo previsto, che prima o poi avrei incontrato qualcuno e, come tutte le mie previsioni, alla fine anche quella si era avverata.

Avvicinandomi fui investito da un puzzo insopportabile che era un misto tra la carcassa di un animale morto e un olezzo di deodorante per auto. Qualcosa del tipo funerale di un gatto. Come se un gatto fosse morto e degli amici gatti gli avessero portato dei fiori.

In realtà non compresi da dove venisse quel puzzo. Mi avvicinai a una delle finestre della casa perché avvertii distintamente dei rumori. Una sedia spostata, una stoviglia che cade a terra, una radio, si proprio una radio, che suonava della musica antica.

Tom, mi dissi, qui abita ancora qualcuno. Già, da un po’ parlavo con me stesso, sintomo evidente che stavo perdendo la testa. Ma, andiamo con ordine. Ero innanzi alla finestra e lo vidi. Vidi subito quel volto senza volto. Aveva la statura di un bambino, i capelli di un bambino, gli abiti di un bambino, ma no. Non aveva il volto di un bambino. E, accanto a lui, un altro volto, quello che sembrava di una bambina, con le trecce bionde e avvolte da un nastro colorato, di una bambina. Ma entrambi senza fattezze. Senza bocca, senza naso, senza occhi. Come se qualcuno li avesse disegnati, e poi li avesse cancellati. I volti, intendo. E quindi, due adulti. Anch’essi privi di ogni fattezza. Piatti in viso, come una superficie finemente levigata. Piatti.

Ognuno interagiva con l’altro, come se avessero ancora la bocca per parlare, le orecchie per ascoltare, e gli occhi per vedersi. Ma nessuno di loro li aveva. Mi ritrassi impaurito. Inorridito portai la mano alla bocca, e mi dissi subito: “Tom, se continui a guardare impazzirai.”

E non era una previsione difficile.

Mi scostai e scappai via. Fu in quel momento che un enorme cane, nero come la pece, iniziò ad abbaiarmi contro. O meglio, lui abbaiava, ma la sua bocca non emetteva alcun suono. I denti si digrignavano come a volermi aggredire, il suo naso umido sbuffava ondate di rabbia, ma non si sentiva nulla. Lui era lì, ma era come invisibile ai miei sensi.

Fu un’altra buona ragione per riprendere la mia corsa e scappare verso la strada. E qui un’ulteriore sorpresa. Ero stato via appena una decina di minuti, e avevo lasciato l’asfalto perfettamente levigato e segnato da bianche e gialle strisce verticali e orizzontali, e ritrovavo un terreno lineato, contorto, pieno di bozzi e di buche, senza colore, venato da radici di erba e da ciottoli frantumati. Una strada impercorsa da decenni.

Cosa era accaduto nei dieci minuti in cui ero mancato? La velocità del tempo si era alterata? La realtà aveva subito un’accelerazione imprevista, tanto da far passare gli anni come minuti? Forse quello era parte del disastro che era accaduto?

Tastai il terreno con i piedi. Era solido e conforme a come me lo ricordavo, quindi in me niente era cambiato. Iniziai a correre e corsi a lungo prima di rendermi conto che correvo in una strada liscia e levigata che appariva ai miei occhi come dissestata e distrutta dal tempo.

Era dunque la mia mente che la vedeva in quel modo.

Così come, forse, era stato per quella famiglia senza volto.

Come il cane che abbaiava senza suono.

Io vedevo la realtà in modo distorto da quello che era.

D’altro canto, poteva essere l’inizio della pazzia che mi ero profetizzato. Potevano essere quelli i sintomi della mia demenza. Chi poteva saperlo. Non è che uno conosce sempre e comunque ciò che sogna e vede un uomo che sta perdendo la sua salute mentale!

Conclusi che, continuare a correre era il modo migliore per togliermi da quell’impasse emotivo in cui ero caduto.

Corsi ancora per un tempo che in sostanza non potrei quantificare.

La strada iniziò a inerpicarsi. Fino a quel momento avevo percorso una lunga, insolitamente lunga, pianura, che neanche conoscevo. Poi iniziò a farsi strada la montagna. Ma, per quanto la strada visivamente si inerpicasse, io sentivo sotto i miei piedi un percorso in discesa.

In sostanza, la strada distrutta la sentivo liscia e levigata; la strada in salita, l’avvertivo in discesa e il freddo…La neve, il ghiaccio, il vento gelido che sferzava inesorabilmente quelle strade tortuose? Come se nulla fosse. La neve era come una schiuma di una sostanza gelatinosa. La toccai una e più volte, non aveva la consistenza che ricordavo; non ghiacciava le mie mani. La sentivo come neutra. E poi c’era il colore. Non era il colore della neve, neanche di neve gialla e sporca, e neanche di neve confusa con il terriccio. Era un bianco assoluto, quasi trasparente. Affondavo sì i piedi dentro quella massa, ma non sentivo ostacolo al mio cammino.

Intorno a me, oltre le iconiche immagini di una montagna, vi erano anche quelle della vegetazione. Una foresta di conifere alte e fronzute che si innalzavano verso il cielo. Da lontano sembrava avere una fine, la foresta, che posso dire? Venti, trenta metri. Ma, se la osservavo da sotto, proprio accanto al tronco e alle radici di un albero, e rivolgevo lo sguardo verso la punta di quell’albero stesso, questi appariva lontano, all’infinito. Indistinguibile. Da vicino erano più alte che da lontano.

E questo mi fa venire in mente un altro strano caso. La baita sull’orlo del precipizio che incrociai dopo, che posso dire? Due settimane di corsa tra le montagne? Diciamolo, anche se non sono sicuro che fossero proprio quattordici giorni.

La baita era costruita con tronchi spessi e ruvidi, incastrati tra di loro. Si alzava da terra di due o tre metri, con una sola finestra e una sola porta. Quando la vidi mi avvicinai. Non sentivo nessun gelo intorno a me, ve l’ho detto poc’anzi, ma sentivo di aver bisogno di uno spazio chiuso. Uno spazio che ridimensionasse quel vuoto eterno verso cui correvo da mesi.

Allora aprii la porta. Lo scricchiolio fu quasi levigato, come se i cardini suonassero una musica discreta e conciliante. Mi sentii stranamente rilassato, fu quando guardai dentro, però, che la mia mente vacillò.

Ciò che da fuori appariva come una piccola casa non più grande di tre metri per tre, all’interno era un castello immenso e buio, dove si rincorrevano scale e corridoi, stanze e saloni, con una frequenza che non era mai la stessa.

Un labirinto in cui si udiva solo un suono. Il suono dei miei passi che rimbombava con un’eco assordante, come se, ogni qualvolta che compivo uno slancio in avanti, altri mille, diecimila, centomila, me stesso, facevano altrettanto.

Quanto restai in quell’edificio? Forse un giorno, forse un mese, forse un anno. Non saprei dire. Continuavo a esplorare ma non scoprivo nulla. Mi sembrava di avvertire, di sentire, di odorare l’uscita, ma non era quella, e neanche quella, e neanche quella ancora. Non riuscivo a venirne fuori, semplicemente perché, e me ne rendevo conto, non avevo nessuna intenzione di abbandonare quel subbuglio di scale, corridoi e stanze, che mi ospitavano senza ospitarmi. Mi sentivo a mio agio in quella confusione di vincoli, perché era chiaro che se avessi voluto trovare l’uscita avrei dovuto e potuto esercitare la mia naturale predisposizione per la veggenza. Prevedere il passo successivo utile per venirne fuori.

E fu così che feci, per un tempo interminabile. Passo dopo passo previdi la strada più corretta per venirne fuori e, quando uscii, dopo un tempo che, come detto, non saprei quantificare, fuori la casa, la baita, era ancora piccola, forse anche più piccola di quando ero entrato.

La neve era scomparsa. La montagna fulminava i sensi con una miriade di colori soffocanti, come viola, giallo, azzurro, rosso, verde, indaco e turchino. Una sorta di primavera da schermo ad alta definizione, dove ogni colore è esaltato ma non naturale.

Mi incamminai, iniziai a correre come il mio solito e subito mi imbattei in una discesa. Un dirupo discendente che mise a dura prova il mio senso dell’equilibrio e della stabilità, e quando giunsi in una radura abbastanza vasta da osservare l’orizzonte, ciò che notai, ai piedi del monte, fu una immensa città. Un’area urbana vastissima, incommensurabile, che potevo osservare per migliaia di chilometri, ininterrottamente, quasi che la Terra non fosse sferica, ma piatta e dritta fino all’infinito.

Scesi vorticosamente gli ultimi metri della montagna perché speravo seriamente che, una volta in una città, qualcuno mi avesse potuto dire qualcosa in più su ciò che era accaduto. Del resto, a parte la fugace apparizione della famiglia senza volto, non avevo incontrato nessun’altra persona. Nessun altro essere umano.

E così fu anche in città. Per essere sintetico, non incontrai nessun essere umano. Capisco, l’essere sintetico, oltre a non essere una mia caratteristica, non spiega molto di ciò che mi capitò. Non spiega esattamente ciò che mi capitò. O forse non lo spiega per niente. Proverò, allora, a non essere sintetico per nulla. O almeno, essere un po’ prolisso, che forse non è del tutto una cosa malvagia, quando si cerca di spiegare l’imponderabile.

La città era bianca. Di un bianco sporco. Di un bianco arrugginito. Di un bianco inquietante. Palazzi giganteschi si innalzavano verso il cielo con finestre tutte uguali, tutte rotte, fatiscenti, inesistenti. Come una dentatura cariata, un muro merlato, un arto ferito. E, questi palazzi, si succedevano sempre uguali, sempre gli stessi, uno dopo l’altro, quasi che, senza volerlo, io stessi sempre ritornando sui miei passi. Dopo parecchi giorni, infatti, me ne venne il sospetto, il sospetto dico, di ripercorrere gli stessi passi, ma non era così, perché, voltandomi alle mie spalle, li vedevo tutti quei palazzi dietro di me. Tutti, decine di migliaia, senza soluzione di continuità.

Fu per questo che mi decisi a entrare in uno di essi. Trovai subito la porta d’ingresso aperta, diciamo divelta, senza serratura, con i vetri rotti, scardinata. Poi un grande salone d’ingresso e numerosi ascensori. Non mi sognai neanche lontanamente di prenderne uno. Non avevo idea se l’energia fosse stata disattivata in tutto il pianeta. Del resto, non sapevo esattamente cosa fosse diventato il pianeta, e quindi…

Mi recai, invece, in uno degli appartamenti al piano terra. Trovai una porta socchiusa e la aprii. Subito fui investito da un forte odore di escrementi. Un olezzo così tangibile che mi sembrava di vederlo sospeso a mezz’aria, come una nuvola grigiastra con venature color cobalto, ma forse era solo un sogno, o qualcosa di simile.

Sentii immediatamente dei rumori. Come sedie che si spostavano, piatti che si urtavano, e uno squittio fastidioso e insistente. Girai l’angolo di quella che aveva tutte le caratteristiche di una sala da pranzo e li vidi. Tre giganteschi ratti, vestiti come esseri umani, alti come esseri umani, che parlavano tra loro come…Ecco, non proprio come esseri umani, ma squittendo, appunto. Uno di loro stava innanzi ai fornelli, l’altro preparava la tavola con posate, bicchieri e piatti, e il terzo era comodamente seduto sgranocchiando qualcosa di simile a un tozzo di pane.

Alzarono i loro occhi su di me e non ebbero nessuna reazione. Continuarono il loro da fare come se io non esistessi. Dal canto mio, però, io ne fui terrorizzato. Mi schiacciai contro la parete più vicina e vidi intorno a me i loro escrementi. Tutto il pavimento era pieno delle loro feci. Mi voltai di scatto e uscii fuori da quello che potrei tranquillamente definire un tugurio. E mi chiesi subito se tutta la gente era divenuta come loro. In effetti, non avevo visto nessuno, a parte la famiglia senza volto. Corsi quindi in un altro appartamento vicino.

Anche questo aveva una porta socchiusa. La scostai con grande attenzione, quasi con disagio. Cosa mi aspettava al di là di quelle mura? Come al solito previdi il futuro, e il futuro non prevedeva nulla di buono.

Fu così, stavolta mi ritrovai in un tinello. Due giganteschi scarafaggi stavano seduti su un divano a guardare lo schermo biancastro e nebuloso di un televisore acceso che proiettava la sua luce, lievemente, per tutta la stanza, illuminandola con un’atmosfera inquietante. Gli insetti muovevano le loro antenne ritmicamente e, ogni tanto, scuotevano le loro ali, come se stessero amabilmente parlando tra di loro. Poi, improvvisamente, il più grosso spense l’apparecchio televisivo, e il tinello cadde nella penombra assoluta. Pensai che mi avessero scorto, che ero per loro visibile, e cercai, inutilmente, di sottrarmi alla loro vista. Ma i due scarafaggi erano intenti a fare ben altro. Erano occupati ad accoppiarsi. Non come scarafaggi, beninteso, anche se non so, esattamente, come gli scarafaggi si accoppino. Ma come esseri umani. Li vedevo copulare come un uomo e una donna, o come due uomini, o come due donne, chi poteva saperlo, non è che potessi vedere i loro genitali o qualunque altra cosa usassero.

La loro vista mi divenne insopportabile, e scappai fuori con la velocità di un fulmine. Diversi mesi, o forse anni, di corsa disperata e giornaliera, mi avevano ben allenato alla fuga.

La città era ancora lì, dove l’avevo lasciata. A proposito, mi ero dimenticato di dirvi che in quello strano luogo che era diventata la Terra, il sole non tramontava mai e non albeggiava, mai. Raggiungeva, sì, lo zenit, poi calava, senza mai scomparire del tutto, e risaliva, ma mai un tramonto, mai un’alba.

Ecco, nella città, anche questo evento era immutabile. Il sole stava sempre al suo massimo zenit e…Basta. Non accadeva più nulla. Ecco perché, una volta uscito fuori da quel palazzo, sconvolto e allucinato dalla vista di quei tragici esseri che erano divenuti gli umani, fui letteralmente accecato dai raggi del sole.

Il mio volto si contrasse come colpito da una bastonata, lo sentii distintamente deformarsi. Ma prima che il sole cucinasse la mia pelle e bruciasse la mia retina corsi nel palazzo vicino. Forse era la luce della verità che mi accecava, forse. Ma fino a quel momento il sole non mi aveva fatto alcun effetto; solo ora notavo la sua luminosità disturbante. Solo ora. Per mesi, forse per anni, avevo corso ininterrottamente senza che la stella mi avesse minimamente ferito. E ora, in quella città, alla vista della metamorfosi umana, ora mi sentivo offeso, sanguinante, depredato della mia natura.

Corsi dentro le vaste sale del palazzo in cui mi ero rifugiato. Salii una, due, tre rampe di scale progressivamente, affrontando i gradini a due a due, a tre a tre. Poi mi fermai innanzi a una porta spalancata. Avvertii un miagolio. Un gatto, sicuramente. Mi rasserenai un momento, i felini erano sempre stati la mia passione. Feci piccoli e silenziosi passi verso la direzione di quel verso animale, e poi, in piedi, alto almeno un metro e ottanta, lo vidi trafficare tra i fornelli. Un enorme gatto siamese vestito con variopinti abiti femminili. Mi guardò, ma non mi vide, come i topi e gli scarafaggi. Continuò a rovistare tra gigantesche scatolette in metallo che apriva e svuotava dentro un’enorme ciotola.

Rimasto basito, indietreggiai, un passo alla volta, verso l’uscita.

Riscesi le scale, quasi buttandomi giù da esse. Volevo riconquistare l’uscita nel minor tempo possibile. Volevo essere ancora una volta offeso e bruciato dalla luce del sole per sentirmi maledettamente vivo.

A forza di prevedere il futuro, ora rimanevo ustionato dalla verità. La catastrofe aveva portato con sé il mutamento. L’intera umanità era cambiata insieme alla Terra. Era mutata in qualcosa di assolutamente imperscrutabile, che però si lasciava scrutare. E il confine tra il sogno e la realtà era divenuto sottile come la parete di uno schermo televisivo. Potevi vedere ma non toccare, vivere ma non immergerti, assaporare ma non sentire i sapori.

La realtà era divenuta il sogno del reale.

Corsi ancora come un ossesso. Mi riparavo all’ombra dei grattacieli, per continuare a vagare in quella città tutta bianca, che in realtà, bianca non era. E nel mio cammino vidi ancora sprazzi di umanità metaforica. Vidi tenersi per mano due pappagalli che chiacchieravano amenamente. Vidi ancora quattro cani su due zampe suonare una musica fantasma senza strumenti. E infine, vidi, dei pesci giganti galleggiare dentro un’automobile piena d’acqua, mentre uno di loro era alla guida.

Vidi gli esseri umani tramutati in animali di uno zoo che non aveva gabbie ma solo finzioni.

E a un tratto la città finì.

Innanzi a me apparve il mare. Un mare talmente grande e immenso che in nessuna delle sue parti si poteva vedere la fine. L’acqua era calma, piatta, immobile. Nessuna increspatura del vento, neanche una vaga schiuma di onda. Niente. Come una superficie di plastica azzurra.

La spiaggia era altresì strana. La sabbia era piena d’impronte, ma anche camminando, io non lasciavo impronte. Non affondavo il piede. Non mi sentivo instabile. Mi sembrava di camminare in un pavimento liscio e levigato.

Affrontai la spiaggia a est, e la percorsi per giorni senza notare nessuna variazione di clima e paesaggio. Il sole, batteva sempre sulla mia pelle, mi bruciava. Ma come tutto, in quel mondo, mi bruciava senza ustionarmi. Come un fastidio che non si decide a diventare dolore.

Poi mi diressi verso ovest, e compii un percorso simile al precedente. Ma anche in quella direzione la spiaggia era immune dai cambiamenti. Tutto sempre maledettamente uguale.

Non restava che aggredire il mare. Parlo di aggredire perché non sapevo nuotare, o meglio, avevo sempre avuto paura dell’acqua. Ciò che mi salvò fu il fatto che quella non sembrava acqua ma, come detto, un’immensa distesa plastica priva di qualunque mobilità.

Feci un passo, poi un altro, quindi un terzo e un quarto, e mi accorsi subito di poter camminare su quella che appariva come acqua. Dopo appena qualche minuto mi ritrovai, come per incanto, a correre sulla superficie di quel vasto oceano di cui non sapevo neanche il nome.

Già, neanche il nome.

Perché, vedete, in effetti, lì il mare non doveva proprio esserci. Ma, d’altro canto, nulla di ciò che avevo visto e attraversato doveva essere dove l’avevo trovato. L’immensa pianura, la ripida montagna, la sconfinata città e, appunto il mare.

Nulla doveva essere eppure esisteva.

E, mentre camminavo prima e correvo poi sull’acqua, mi resi conto che finalmente mi sentivo libero. Non vi era nessun ostacolo intorno a me. Per centinaia, forse migliaia, o più precisamente milioni di chilometri, tutto ciò che vedevo era un’immensa distesa plastica color cobalto e il sole dall’alto che l’illuminava.

Dopo parecchi giorni, chiamiamoli giorni, in effetti non tramontando e sorgendo, il sole di giorni non ne generava; dicevo, dopo parecchi giorni vidi i primi segnali di vita. Erano enormi cetacei che rimanevano cristallizzati sulla superficie di quella che, come detto, sembrava acqua. Potevo avvicinarmi, toccare il loro dorso, accarezzare la bocca, senza che nessuno reagisse. Quindi, mi accorsi che un’enorme balena azzurra era stata, come altro dire, fermata nell’atto di sbuffare una gran quantità d’acqua dal suo dorso. Le gocce salivano per qualche metro, ma non ricadevano giù. Le toccai e sentii distintamente la mano bagnarsi, ma l’acqua rimaneva immobile innanzi a me.

Non provai nessuna strana sensazione, in fin dei conti non avevo sensazioni da un bel po’. Sapevo che, come tutto il resto, la pianura, la montagna, la città, anche il mare sarebbe finito, per quanto infinito apparisse.

E, difatti, dopo parecchio tempo iniziai a guardare il cielo che cambiava lentamente sotto i miei occhi. Come detto, era stato di un giallo muffa, del colore che lascia un tubo di fogna rotto dentro la parete di un muro bianco. Poi il sole ne aveva obnubilato l’esistenza. Quel sole cocente e debordante che lanciava furibondi raggi sulla mia povera testa, ne aveva fatto un colore unico. Un giallo tendente al bianco. Ma ora, dopo la lunga traversata del mare, il colore stava lentamente degradando verso l’azzurro.

Con il passare dei giorni mi accorsi che l’azzurro assumeva sfumature sempre più scure e il sole si faceva sempre più piccolo. Dopo l’azzurro fu il tempo del blu, un blu tenue, quasi impercettibile e il sole divenne grande come una piccola palla da tennis. Irradiava, in verità, ancora i suoi raggi, ma erano come piccole carezze di vento sulla mia pelle.

Al blu, in breve, si sostituì il nero. Un nero pece. Lucido come appena strofinato da un panno di lana. Il sole ormai aveva le dimensioni della testa di uno spillo. Lontano. Irraggiungibile. Emanava una tenue luce e si confondeva con altri miliardi di stelle. Anche se io, come dire, avevo chiaramente la cognizione dove il mio sole si trovasse in mezzo a quella infinità stellare.

Il mare, ovviamente, si era anch’esso colorato di nero. Ora sembrava quasi di camminare sull’asfalto. Mi aspettavo, inutile nasconderlo, la terraferma. Il mio corpo non si era mai stancato di tutto quel correre e quel camminare, ma da qualche tempo (giorni, mesi, anni…) sentivo come mancarmi il respiro.

Ogni passo i miei polmoni faticavano a tirar su l’ossigeno per farmi sopravvivere. E, allora, feci un’altra delle mie solite previsioni. In quella situazione, in mezzo al nulla, che poi nulla non era, senza cibo, senz’acqua, senza compagnia, sull’orlo della pazzia, poteva accadere una sola cosa: dovevo morire.

Morire era, per così dire, inevitabile. Anzi, sarebbe più giusto dire ineluttabile. In quanto era ormai inutile lottare per tentare di salvarsi, così come direbbero i latini: ineluctabĭlis, eluctabĭlis, eluctari…Salvare sé stessi lottando.

Non avevo mai lottato per salvare me stesso. Mai. La vita l’avevo trascorsa prevedendo ciò che mi sarebbe accaduto e vedendolo accadere.

Fu così che decisi di distendermi sul mare nero come la pece e lasciarmi morire.  

Chissà esattamente cosa si sogna quando si sta per morire.

Io sognai di essere sull’orlo della fine del mondo.

Conoscevo perfettamente che la Terra non era piatta. Lo sapevo, dannazione se lo sapevo. Eppure, mentre dormivo, mi resi conto che il mio braccio scivolava giù, penzoloni, nel vuoto. E quindi mi destai improvvisamente, sorpreso e sconcertato.

Quale vuoto?

Guardai e lo vidi. Il vuoto era la fine del mondo. Era l’orlo su cui finisce quel sogno mostruoso della terra piatta. Il sogno che ogni uomo compie quotidianamente per poter sopravvivere. Negare l’evidenza.

Il mio braccio penzolava nel vuoto dell’eternità.

Sotto di esso non vi era altro che lo spazio infinito, pieno di altre stelle, di altre galassie, di altri pianeti. E come attratto da una calamita mi lasciai andare. Scivolai dolcemente e, con mia grande sorpresa, galleggiai nel vuoto.

La mia corsa era finita. Il mio delirio cessato. Era durato un minuto lungo millenni o un millennio lungo un minuto? Chi può dirlo, io comunque ora ero lì.

Solo. Dentro una tuta pressurizzata, a morire, godendomi appieno gli incubi dell’ipossia.