“E tutti questi momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire.”

Trentacinque anni dopo questo inconfondibile monologo la pioggia si è trasformata in neve, in Blade Runner 2049. Così come la città di Los Angeles ha lasciato il posto ad altre location, continuando il progetto iniziato da Scott e Fancher di esplorare il mondo dove i “lavori in pelle” altrimenti detti replicanti, vengono ritirati dalle unità di polizia Blade Runner.

Il film è potente, non scevro da difetti, ma, lasciatemelo dire, è una vera opera di narrativa fantascientifica che riprende le tematiche del precedente film allargandone la visuale e proponendo nuove direzioni ed evoluzioni delle storyline.

Dal noir chandleriano del primo episodio ci troviamo in un gioco di vero/non vero simile ai rivolgimenti spia/controspia di Le Carrè, e anche il ritmo nella prima parte del film può a tratti apparire fin troppo lento e descrittivo, cosa che denota la notevole libertà di cui ha goduto Villeneuve nel girare una storia con mano libera e poterci presentare subito il montaggio definitivo. Tanto libera da far arrivare e gestire il personaggio di Deckard /Harrison Ford in funzione della storia e non del fanservice (si, mi riferisco a Episodio VII!) Se poi avete visto Arrival sarete anche pronti all’accelerazione nell’ultimo quarto del film con conseguenti colpi di scena.

Ma il piacere di scrivere di 2049 è dovuto al notevole lavoro di scrittura che ha elaborato le tematiche del precedente film (e del parzialmente tradito racconto di Dick cui si ispirava) infondendo loro nuova linfa, magari esplicitando in dialoghi quanto nel precedente era solo sottinteso, divertendosi a non risolvere questioni dibattute dall’uscita del primo film.

Ad un certo punto in una scena Gosling e Ford si incontrano ed è presente un cane al che Gosling chiede: “E’ vero?” E Ford risponde: “Non lo so, chiedilo a lui.” Dunque non è importante sapere chi o cosa è vero e chi o cosa no. Altre frasi mi sono rimaste in mente come: “Nato, non creato.” “Te la cavi bene anche senza. “ “Senza cosa?” “L’anima.” Oppure “La cosa migliore che puoi fare per chi ami alle volte è diventare estraneo.”

I Nexus 6, i replicanti che Deckard ritirava, volevano conoscere date di immissione, durata, provenienza dei ricordi. Quelli che incontriamo in 2049 pur obbedienti, si pongono le stesse domande, con la grigia consapevolezza di essere “umani di serie b” perché non nati e privi di anima.

Si, proprio di anima.

Dal 1992, anno di uscita di Blade Runner, a oggi sono tante le opere di fiction che si sono poste la questione se gli androidi sognino di pecore elettriche o meno. Cito, senza alcuna pretesa di esaustività, le prime tre che mi vengono in mente: Ghost in The Shell (anime), AI (film), Westworld (serie). Blade Runner 2049 si inserisce proprio in questo solco, puntando direttamente al nucleo del problema. C’è differenza da chi nasce già adulto in una sacca/vasca/utero artificiale e chi nasce dall’utero di una donna, e la differenza si chiama anima.

Permettetemi un inciso di carattere religioso, mentre nel primo qualcuno ravvisò riferimenti cristiani, in 2049 la centralità della matrilinea ereditaria (per via uterina) riecheggia l’ebraismo ortodosso.

Ma torniamo al concetto nascita. La mia professione di ginecologo mi ha portato a confrontarmi da trent’anni con questo evento, e l’insegnamento che ne ho tratto è stato: non sappiamo nemmeno lontanamente di cosa stiamo parlando. Il percorso del concepimento, dello sviluppo fetale, dell’innesco del travaglio e del parto, per quanto studiati, indagati, ipotizzati, sono ancora ben aldilà delle nostre conoscenze medico scientifiche. Intendiamoci, la mortalità materna e infantile (in occidente) è enormemente ridotta, l’assistenza alle copie sterili/infertili ha avuto un notevole balzo in avanti in termini di tecnica e risultati. Ma esiste un quid imponderabile con il quale ci misuriamo ogni giorno. E’ quello il quid che “inserisce” l’anima?

Nessuno di noi lo sa, nemmeno Wallace, il nuovo deus ex machina del mondo di 2049, capaci di sfamare la terra con i suoi cibi sintetici ma frustrato perché le sue replicanti hanno un utero che resta sempre un vuoto spazio bianco.

Di sicuro Wallace è più fortunato di Tyrrell, padre dei Nexus 6 (anche se ugualmente affetto da una patologia degli occhi come se indagare i segreti della vita rendesse ciechi al mondo reale) in quanto a sopravvivenza nella storia ma finisce per dover ammettere momentaneamente i propri limiti.

Attenzione, però, perché in realtà la mancanza dell’anima attribuita ai replicanti appare essere solo un parere/pregiudizio diffuso, così diffuso che se ne convincono essi stessi. E mentre i replicanti aspirano ad un anima gli ologrammi aspirano ad un corpo.

Questa è una delle novità: Joi, la ragazza olografica di cui è difficile non innamorarsi, che per amore cerca un corpo che le permetta di amare Gosling dando origine ad una delle sequenze più belle del film per le sue valenze romantiche ed erotiche.

Anche i replicanti hanno i loro replicanti (gli ologrammi) e l’anelito della AI Joi, che potremmo definire basica, è quello di divenire corporea, allo stesso modo in cui loro vogliono da solo corporei divenire umanamente spirituali.

Apparentemente alla cima della piramide sembrerebbe dunque esserci l’uomo.

Ovvero quell’essere che ha irrimediabilmente compromesso il proprio habitat esportando nelle colonie extramondo il germe della violenza non trovando niente di meglio da fare se non produrre replicanti per farli combattere al proprio posto.

E quando dovessero capire di averla, quell’anima (perché a mio giudizio non si tratta di ottenerla) sarebbero poi in grado di essere uomini migliori di noi?

Lo stesso termine che designa i modelli dei replicanti “nexus” fa pensare al “successivo” al “prossimo” passo dell’evoluzione. Dunque loro potrebbero essere il “prossimo gradino”.

Eppure la storia dell’evoluzione della vita su questo pianeta ci ha insegnato che allo scatto evolutivo corrisponde un cambiamento radicale nella popolazione abitante (pesci, rettili, mammiferi).

Tuttavia siamo umani e non possiamo che pensare in termini antropomorfici, dopo tutto chi mai andrebbe a vedere al cinema un film non figurativo?

Il finale del film apre uno spiraglio di speranza, una speranza di sesso femminile, legata ad un segreto attorno al quale si avvolge l’intera storia. La speranza che il sacrificio di uno per la salvezza di molti sia il germe che possa avviare una nuova umanità verso le stelle.

L’ennesima utopia, forse.

Ma sulla scena finale che spetta a Gosling non si può non apprezzare il silenzio, che, per tornare alla citazione dell’apertura, non poteva essere che l’unica alternativa all’immortale “I’ve seen things…” di Rutger Hauer.

Cosa sperare ora?

Che produttori, registi, e sceneggiatori di franchising come Alien, Terminator, Star Wars possano imparare la lezione da un sequel di questa stampo comprendendo che gli appassionati di fantascienza non sono meri fruitori decerebrati di saghe infinite.