L’apparizione di 12 veicoli extraterrestri in altrettante parti della Terra getta il mondo nello scompiglio. Mentre la popolazione reagisce nei modi più disparati i vari governi sono interessati anzitutto a capire la ragione della loro venuta. Negli Stati Uniti le forze armate si mettono in contatto con vari studiosi, che vengono portati nelle vicinanze del gigantesco e misterioso oggetto, che staziona sospeso a qualche metro dal suolo in una zona agricola del Montana. Tra quelli reclutati dal colonnello Weber (Forest Whitaker) vi sono il fisico teorico Ian Connolly (Jeremy Brenner) e l’esperta linguista Louise Banks (Amy Adams), alla guida di un’equipe che ha come scopo primario quello di cercare di stabilire un canale di comunicazione con gli extraterrestri, per capire perché sono qui. Mentre i giorni passano con una serie di incontri ravvicinati con le strane creature la tensione tra le varie nazioni cresce e la pressione si fa sempre più pressante su Louise, la cui mente non solo deve costantemente lavorare alla decifrazione del linguaggio sconosciuto ma deve anche fronteggiare un evento di primaria importanza che riguarda profondamente la storia della sua vita…

Presentato in concorso alla 73^ Mostra del Cinema di Venezia Arrival è stato accolto con un plauso quasi unanime della critica e la cosa si spiega in maniera assai semplice: si tratta di una perla di film. A livello di marketing la produzione ha comprensibilmente puntato sull’aspetto spettacolare dell’arrivo delle navi spaziali ma, diciamolo subito, Arrival non è un film su un’invasione aliena ed è quanto di più lontano ci possa essere dai vari Independence Days. Il tema è quello del primo contatto, che ha sempre rivestito un ruolo particolarmente di rilievo nella fantascienza e questo film va ad affiancarsi a pieno titolo a pietre miliari come 2001: odissea nello spazio, Incontri ravvicinati del terzo tipo e Contact

Partendo dal racconto di Ted Chiang Storia della tua vita (contenuto nell’antologia Storie della tua vita, Frassinelli Editore, 2016) lo sceneggiatore Eric Heisserer (La cosa – 2011) ha scritto una sceneggiatura nella quale vi è un elemento di forte tensione, preservando tuttavia appieno gli aspetti filosofici del racconto originale e combinandoli efficacemente con le nervose relazioni geopolitiche mondiali. L’idea di base deriva dall'ipotesi di Sapir-Whorf, o "ipotesi della relatività linguistica", che afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Questo concetto viene spinto fino alle sue estreme potenzialità, sia filosofiche che drammaturgiche, con il linguaggio che influisce non solo sul nostro modo di pensare ma sulla nostra intera percezione del mondo e della stessa nostra vita. 

Avendo il cinema esso stesso un linguaggio il canadese Denis Villeneuve (di cui quest’anno vedremo anche l’atteso Blade Runner 2049) dimostra di saperlo usare magistralmente, riuscendo a gestire in maniera brillante tutti i vari elementi che costituiscono un film – da quelli tecnici come fotografia e effetti speciali a quelli più artisti come le performance degli attori – facendoli confluire in un risultato finale organico e compatto che è superiore alla somma delle sue parti. Elemento fondamentale di questo linguaggio è il montaggio, e la struttura circolare messa in campo dal regista insieme al suo montatore Joe Walker è davvero da Oscar, anche perché rispecchia e si amalgama perfettamente con altri elementi fondamentali della storia.  

Amy Adams in "Arrival"
Amy Adams in "Arrival"

Per quanto riguarda gli attori impossibile non sottolineare la clamorosa prova di bravura della protagonista Amy Adams, che con una recitazione fortemente interiorizzata e trattenuta riesce tuttavia e rendere in pieno i travagli interiori e le difficoltà di un viaggio che è suo, ma anche nostro. 

Arrival è uno di quegli esempi di fantascienza che non offre solo begli effetti speciali ma anche stimoli e pensieri. Al tempo stesso è profondamente emozionante e aiuta un po' a riconciliarsi con un mondo che ci appare ogni giorno più egoistico e incattivito. È anche un film che ci fa chiedere (o perlomeno dovrebbe) in che tipo di mondo vogliamo vivere: in uno nel quale tutti, dalle persone alle nazioni, si guardano perennemente con sospetto e tramano le une contro le altre, oppure un mondo che condivide sapere e risorse. In un certo senso è un film che ci fa chiedere che tipo di umanità vogliamo essere. È un concetto fondamentalmente semplice eppure di difficilissima realizzazione, perlomeno secondo gli attuali parametri sociali e culturali predominanti. Ma rimane una nobile idea, bellissima e fragile, affascinante come il dissolversi di una nuvola alla luce del sole.