I rapporti con “l’altro” costituiscono uno dei punti nodali della cultura dell’Occidente. Il diverso può provenire dall’esterno, come gli immigrati originari delle ex colonie, o essere presente all’interno, come l’omosessuale, il sottoproletario, il malato. Si tratta, ovviamente, di individui che risultano diversi solo per la loro condizione sociale e/o culturale. L’appartenenza alla stessa specie li accomuna, in ogni caso, a coloro che, rientrando nella norma, risultano perfettamente inseriti nella società.

La fantascienza, essendole aperta la dimensione dell’immaginario, ha potuto

Walter Trevis
Walter Trevis

esplorare l’ipotetico rapporto dell’Uomo con entità senzienti diverse dal punto di vista biologico, in modo particolare i robot e gli alieni. Il tumultuoso progresso tecnologico sta per trasformare i primi – mettendo nel calderone le intelligenze artificiali anche non antropomorfe – in interlocutori realistici. Per quanto riguarda i secondi, purtroppo, dobbiamo ancora lavorare di fantasia.

Ed è proprio un alieno, un individuo più che diverso, addirittura totalmente estraneo, il protagonista di un bel romanzo dell’inglese Walter Tevis, L’Uomo che cadde sulla Terra (The Man Who Fell to Earth, 1963), pubblicato da Pan Books nel 1963 e comparso nello stesso anno nel nostro paese (Urania n° 357).

La storia, riassunta in poche righe, è questa: l’alieno Newton, così si fa chiamare il protagonista appena giunto sul nostro pianeta, appartiene a una razza i cui caratteri fisici sono molto simili a quelli dei terrestri. Ciò rende possibile un efficace camuffamento che gli consente di aggirarsi indisturbato tra gli abitanti degli Stati Uniti. La missione che gli è stata affidata è disperata, ma tanto semplice e geniale nella concezione quanto difficile da portare a compimento: giungere sulla Terra, arricchirsi con la vendita di brevetti innovativi e, con i capitali ricavati, costruire un’enorme astronave con la quale portare soccorso ai pochi sopravvissuti del morente pianeta Anthea. Questo, il cui equilibrio è stato sconvolto da una guerra nucleare ormai conclusa, muore di siccità. All’inizio l’esecuzione del piano procede senza intoppi, ma Newton finirà per essere scoperto dalle autorità. Sottoposto a una serie di analisi invasive, dolorose e inabilitanti finirà per perdere quasi del tutto la vista e si trasformerà in un vecchio sconfitto, disilluso e malinconico.

Si tratta di un piccolo classico che andrebbe letto da chi lo sconosce e riletto da chi lo ha apprezzato in passato. L’opera, a mio avviso, merita una riscoperta per diversi motivi.

Tanto per cominciare è estremamente scorrevole e lineare nel suo sviluppo e accompagna il lettore lungo la narrazione senza sottoporlo allo sforzo di incastrare gli elementi di un puzzle fantascientifico. Struttura, quest’ultima, oggi molto usata e non sempre apprezzata, soprattutto da chi si accosta al genere da neofita.

Per fare un esempio, la natura extraterrestre di Newton è celata nella storia, ma immediatamente palese al lettore.

Il romanzo è attraversato da una vena di malinconia e sembra dipanarsi dolcemente ma inesorabilmente fino al triste epilogo. Eppure non stanca, anzi avvince e risulta a tratti addirittura poetico.

Il meccanismo della sospensione dell’incredulità si innesca con particolare rapidità, laddove con altri autori costa fatica. La verosimiglianza dell’impianto è una piacevole sorpresa per il lettore attento. L’immedesimazione con il protagonista è facile e immediata il che non è scontato, trattandosi di un essere alieno. Andando avanti, pagina dopo pagina, ci si sente addosso il senso della segretezza, dell’urgenza della missione di cui è gravato. L’incolmabile solitudine che lo affligge, appena attenuata dal prudente rapportarsi agli umani, si percepisce in tutta la sua intensità. In poche parole, quella che apparirebbe, almeno all’inizio, quasi una storia di spionaggio finisce per diventare un percorso tutto sentimentale, emozionale e carico di simboli.

I comprimari, coloro che interagiscono con Newton, sono molto interessanti, soprattutto Nathan Bryce e Betty Jo Mosher. Il primo è un docente universitario di chimica di mezz’età, poco appariscente ma inaspettatamente brillante e intuitivo. La seconda è una disadattata che si mette al servizio del protagonista, diventandone una sorta di balia. È afflitta da dipendenza da alcol e nel bere stempera frustrazioni e insicurezze. Il tema dell’etilismo, va ricordato, è uno dei più ricorrenti nella produzione e nella vita dell’autore. Queste figure, così ben definite, non possono lasciare indifferente chi è affascinato dai personaggi che la società mette al margine, ma che diventano determinanti nel bilancio di una storia. E, nonostante il loro essere borderline, hanno un tale spessore da dare al romanzo, a dispetto del titolo, una inattesa impronta corale. E qui si vede il “marchio di fabbrica” dello scrittore americano: soprattutto questa coppia di personaggi ricorda quelli che ruotano intorno a Eddie Felson, il protagonista de Lo Spaccone (The Hustler, 1961) il primo e più grande successo di Walter Tevis. Particolarmente affini sono le due donne che intrecciano un rapporto con i protagonisti: entrambe materne, protettive e dedite fino all’autolesionismo.

A questo punto, è doveroso ricordare la trasposizione cinematografica di L’Uomo che cadde sulla Terra diretta da Nicholas Roeg nel 1976 che, pur essendo un’opera a se stante, non fa rimpiangere il testo originale anche grazie alla magistrale interpretazione di David Bowie, rockstar felicemente prestata al grande schermo. Diciamo che la visione del film, per un caso fortunato, integra quanto raccontato dal romanzo e non ridimensiona lo scenario fantastico che il lettore costruisce capitolo dopo capitolo. Particolarmente pregnanti di suggestioni e significati risultano le scene oniriche nelle quali appaiono l’acqua, tanto desiderata su Anthea, e una famiglia aliena che si indovina essere quella di Newton. Una felice e tutt’altro che scontata armonia narrativa tra la parola e l’immagine.

Tornando al testo, bisogna dire, a onor del vero, che Tevis è stato uno scrittore per molti versi anomalo e, tra l’altro, poco prolifico. Solo metà dei suoi pochi romanzi sono classificabili come Science Fiction e, in qualche modo, sfuggono ai canoni del genere. Si è detto che la vera fantascienza dovrebbe partire da un’ipotesi scientifica o, al limite, sociologica. Ebbene, L’Uomo che cadde sulla Terra potrebbe fare a meno dell’una e dell’altra. Al di là della presenza di un extraterrestre, della costruzione di una gigantesca astronave, dell’azione di istituzioni liberticide, rimane davvero essenziale il nocciolo della storia: la sopraffazione di un individuo la cui alterità rappresenta da una parte una ipotetica minaccia da sventare, dall’altra un serbatoio di informazioni e conoscenze al quale attingere senza ritegno.

Le istituzioni, qui inquisitorie e liberticide, vengono descritte come del tutto insensibili ai diritti del singolo e ne dissezionano il corpo e l’anima con una durezza e un’inflessibilità che si indovinano cieche e orribilmente standardizzate nella loro impersonalità.

Newton, come detto, nell’introduzione, è altro, è diverso, per certi versi incomprensibile. È molto più gentile, sensibile, intelligente e attento dell’essere umano medio. È un po’ ciò che dovremmo essere e non siamo, un po’, se mi è concesso l’ardito accostamento, come i robot asimoviani. Gli ricade addosso la punizione riservata all’innocente, all’inerme, a chi imbarazza troppo con la propria purezza tanto da diventare più che scomodo, addirittura intollerabile. È, in un certo senso, scomodando Herman Melville dopo il Buon Dottore, un Billy Budd venuto dallo spazio.

Vi consiglio, quindi, di leggere – o rileggere – L’Uomo che cadde sulla Terra. Perché non è mai abbastanza profonda e continua la nostra riflessione sul significato di concetti quali libertà, dignità, integrità, giustizia e rispetto per ciò che umano. O che, non essendolo, come in questo caso, meriterebbe un briciolo di considerazione se non di pietà.

Prendete in mano il romanzo, quindi, e leggetelo attentamente, vi avvincerà e vi farà riflettere. È ciò che si chiede alla buona fantascienza.