Nel lavoro si usano i numeri, gli indici, si fanno conteggi e grafici e il massimo della fantasia è colorare tutto con le caselline rosse o gialle. Una volta, almeno, si scrivevano le lettere e le cartoline: adesso chi lo fa più? Ci sono le e-mail, supportate da correttori automatici di ortografia e corredate da un cifrario di abbreviazioni e acronimi degni del Codice Mercury. Per non parlare poi degli sms e del T9: quello sì che è fantascienza, e poi ci si lamenta che non usiamo più il cervello!Scrivere, o meglio raccontare come hai giustamente specificato tu, è qualcosa che hai dentro. A qualcuno piace suonare la chitarra, ad altri, invece, piace starlo ad ascoltare. C’è chi fa fotografie e chi va alle mostre fotografiche. Qualcuno ama sentirsi raccontare storie. Qualcun altro ama raccontarle.Solo che per raccontarle, soprattutto nel terzo millennio, dove se non è già stato scritto tutto, poco ci manca, bisogna avere delle idee o, almeno, sforzarsi di tirarle fuori. Il mondo della fantascienza non cambierà certo perché io ho scritto Il metallo degli dei! Ma, lo stesso, l’ho voluto scrivere. Per fare qualcosa in cui credo, qualcosa che mi desse piacere. Per darti un’idea, i primi racconti li ho scritti quando ero alle medie (e ogni tanto mi domando che fine hanno fatto).Comunque, quello che intendo è che nessuno ti darà mai la voglia di scrivere un romanzo. Se ce l’hai, è perché sei nato con quella particolare inclinazione. La voglia di raccontare. La voglia di dare vita a qualcosa che una vita non ce l’ha. E qui mi riallaccio alla tua domanda precedente sulle letture giovanili. Sono sempre stato affascinato da chi, solo con la forza delle parole, senza immagini o disegni, nettamente più intuitivi e tangibili, riusciva a farmi fantasticare sull’inesistente. Penso ai Frankenstein, al dottor Jekill e al signor Hide, al vecchio marinaio di Coleridge. Fantasia allo stato puro, in epoche in cui la fantasia era un optional e si badava molto più al sodo di adesso.

Da ragazzo non capivo cosa spingesse un uomo, sano di mente, a comprare un modellino di, che so, tremila pezzi, molti dei quali necessitavano di pinzette solo per essere maneggiati. Da più adulto l’ho capito. E’ solo passione. Che sia un modellino, una miniatura di D&D o un romanzo, poco cambia. E’ ciò che ti piace. E’ la tua natura, punto e basta. Non ti resta che assecondarla e sarai un po’ più felice. Come lo sono stato io, quando ho avuto tra le mani il fatidico “mio primo libro”.

Il tuo romanzo è di circa 400 pagine, quanto tempo ci hai messo a terminarlo e come ti organizzi quando scrivi?

E’ stata lunga, non lo nego. Dieci mesi in tutto, fra stesura, riletture e controlli vari. Una faticaccia. Ma poiché nessuno mi ci aveva costretto, è stata anche una grande soddisfazione. Generalmente scrivo la sera, nel fine settimana o quando sono in ferie. Ma c’è un piccolo segreto. Qualcosa che, grazie al mio lavoro, mi è possibile fare, senza risultare distruttivo per la società che mi paga! Il lavoro mi porta a visitare clienti sparsi per la provincia di Brescia e viaggio spesso, solo e quasi sempre in coda, con l’unica compagnia della musica. Quello è il momento ideale per far viaggiare la fantasia, per pensare a come strutturare il capitolo successivo o come delineare meglio un personaggio o una scena. Ho comprato un piccolo registratore vocale, che uso per appuntare le idee migliori o i commenti che potrebbero essermi utili. Ce l’ho sempre sul sedile del passeggero e poco importa se, in coda, qualcuno vede un pazzo parlare a una specie di accendino: tanto tutti sanno che il traffico bloccato gioca brutti scherzi, no? E quando la coda passa, ingrano la prima e riparto. Ma un pezzettino del romanzo, se non proprio scritto, almeno è stato focalizzato. Ti assicuro che ha funzionato. Se poi hai un sottofondo musicale strumentale, la mente riesce a viaggiare ancora più beata! Il resto lo fa l’entusiasmo e la voglia, la sera, di tradurre il tutto in parole. E lì, a volte, cominciano le rogne.

Il metallo degli dei è il primo capitolo di una trilogia intitolata Solar Maximum: quando hai deciso che “doveva” essere una trilogia, che non potevi condensare il tutto in un unico volume?

Bella domanda. Risposta: boh, e che ne so? L’idea si è dipanata. La storia si è articolata. Com’è che si dice in questi casi: la trama s’infittisce...Un capitolo dopo l’altro, mi sono reso conto che non sarei mai riuscito a rendere in un solo libro tutto ciò che volevo raccontare. Certo, volendo avrei potuto. Avrei potuto eliminare questo o quel personaggio, abolire una serie di ambientazioni, semplificare determinate circostanze. Tagliare, ridurre, condensare. Al limite, avrebbe anche potuto essere un solo libro di centocinquanta pagine o, per assurdo, anche un racconto di venti. Ma non era ciò che volevo. Non sarebbe stato Solar Maximum, ma un compromesso (a beneficio di chi, poi?) e non la realizzazione della mia idea. Tieni presente che, all’epoca, stavo veramente scrivendo per me stesso e per quella poveretta di mia moglie, costretta a leggere stralci senza senso di capitoli sparsi. La spada di Damocle della spedizione dell’opera a un editore non pendeva sul mio capo. Ero solo concentrato a dare il meglio, con gli inevitabili difetti di un esordiente, le normali imperfezioni stilistiche di un cadetto, le classiche ingenuità di un principiante. Ma sono andato avanti lo stesso.E quando ho visto il libro in vetrina in alcune librerie e sono arrivate le prime recensioni, allora ho capito che, forse, tutti i torti non li avevo.

C’è stato un romanzo, uno scrittore, un film che ti ha dato l’idea o l’ispirazione?

Appartengo alla generazione di Dune (sia libro che film), di Guerre Stellari (i primi tre, quelli veri, e non quelli di adesso, più finti di un incontro di wrestling). Ho vissuto il passaggio di consegne fra i capitani Kirk e Picard. Ho cominciato a leggere i fumetti della Marvel a sette anni. Ho divorato Asimov dai dodici, partendo da Lucky Starr. Ho scoperto Tolkien a quindici. Loro, tutti assieme, sono stati i miei sogni e i miei eroi. L’idea complessiva della trilogia è, da una parte, frutto dell’aria che mi hanno fatto respirare e, dall’altra, figlia dei miei studi e delle esperienze sul lavoro. Così è nata la Parachimica e i suoi nove elementi tecnomorfi: ricorda che, per molti anni, la mia quotidianità era l’acciaio liquido a 1700 gradi (Celsius). Sono cose che lasciano il segno!