Spesso si fanno lunghi e inutili discorsi sulla morte della fantascienza. Ma mai si sente così forte questa sensazione di disagio come quando sembra spezzarsi una colonna portante, come quando se ne vanno gli autori che hanno fatto la storia, tracciato una strada, alimentato i sogni e la fantasia di milioni di persone. Lo abbiamo vissuto quando è morto Asimov, quando è morto Dick, lo riviviamo ora con la scomparsa del grande Jack Vance.

Aveva 96 anni. Ha vissuto una vita ricca, piena, gratificante. Ha viaggiato, ha vissuto avventure. È stato sposato felicemente per 62 anni con la stessa donna, Genevieve Ingold, scomparsa cinque anni fa. È stato uno scrittore gratificato dall'adorazione dei suoi fan ma non troppo di successo da farsi cambiare la vita. È morto pacificamente, nel sonno nella sua casa di Oakland, domenica notte. Il New York Times Magazine lo ha definito "una delle voci più originali e sottovalutate della letteratura americana". L'associazione degli scrittori di fantascienza americana lo ha nominato Grand Master nel 1997 ed è stato incluso nella Science Fiction Hall of Fame nel 2001.

John Holbrook Vance è nato il 28 agosto 1916 a San Francisco. Si è pagato gli studi all'università di Berkeley facendo i lavori più svariati. Ha studiato ingegneria, fisica e giornalismo, senza laurearsi, mentre cominciava a pubblicare recensioni musicali su un giornale californiano. 

Nel 1941 lavora come elettricista a Pearl Harbor ma lascia le Hawaii proprio un mese prima del devastante attacco giapponese. Non può arruolarsi a causa dei problemi di vista, ma riesce a entrare nella marina commerciale. È durante questi viaggi che inizia a scrivere: il suo primo racconto viene pubblicato nel 1945, The World Thinker. Fa il marinaio, il perito, il falegname e altri lavori prima di decidere di dedicarsi solo alla scrittura, negli anni settanta. Viaggia: Tahiti, Sud Africa, Italia, Kashmir.

Vince il premio Hugo nel 1963 con The Dragon Masters e nel 1967 con The Last Castle. Tra i suoi primi lavori una delle opere seminali del genere fantasy, il ciclo della Terra morente. Tra la metà degli anni sessanta e gli anni settanta i suoi più grandi capolavori: i cicli di Tschai, di Alastor, di Durdane e quello dei Principi Demoni, i cui primi tre romanzi escono alla fine degli anni sessanta e gli ultimi due, forse l'apice della carriera di Vance, nel 1979 e nel 1981.

Negli anni ottanta torna al fantasy col ciclo di Lyonesse, che gli vale il World Fantasy Award. Negli anni novanta scrive l'ultimo grande ciclo, le Cronache di Cadwal, a cui segue poi il romanzo in due parti Ports of Call-Lurulu, ultima opera di narrativa: durante la scrittura della seconda parte Vance è già cieco, ma riuscirà ancora a scrivere la propria autobiografia, This is Me, Jack Vance!, che vincerà l'Hugo nel 2010.

Innumerevoli gli scrittori che sono stati influenzati dal suo stile caratteristico, giocoso e sofisticato, dalla immaginazione visionaria, dai suoi personaggi cinici e pittoreschi: da Michael Moorcock a George R.R. Martin, da Gene Wolfe a Harlan Ellison. Il suo nome non è tra i più conosciuti al grande pubblico, dai suoi libri Hollywood non ha tratto nessun film. Secondo Dan Simmons, se Vance fosse nato in America latina avrebbe vinto il Nobel; anche Michael Chabon ha un'opinione simile, affermando che se The Last Castle o The Dragon Masters fossero state di Italo Calvino o di un altro autore con un nome esotico sarebbero state accolte con grande rispetto e approfondimento, ma venivano da un autore che pubblicava sui pulp di fantascienza, e questo gli ha impedito di essere riconosciuto per il suo vero valore.

Ma chi conosce la fantascienza sa bene che Jack Vance era una delle colonne di cui parlavamo all'inizio. Una colonna portante, forte e splendida nella sua eleganza. Che non si spezza, perché scomparso l'uomo restano le sue opere, e le opere di Jack Vance sono di quelle che restano per sempre.