Ma quel pomeriggio un’idea sembrò cominciare a far capolino. Qualcosa che era ancora troppo vago, troppo diafano per metterlo sulla carta, anche solo come appunto; qualcosa di impalpabile come la linea di un pensiero, forse, ma era qualcosa. Era un inizio, sperava, ed era un grosso miglioramento rispetto a com’erano andate le cose a Los Angeles.Si trovava nel peggior pantano della sua carriera di scrittore ed era quasi letteralmente impazzito perché da mesi non aveva scritto una parola. Per rendere tutto peggiore, il suo editore gli alitava sul collo con frequenti lettere spedite per posta aerea da New York chiedendogli almeno un titolo da annunciare come suo prossimo libro. E quando avrebbe finito il libro, e per quando lo avrebbero potuto programmare? Avendogli dato cinquemilacinquecento dollari d’anticipo, aveva tutto il diritto di chiedere.

Alla fine, era stata la pura disperazione (e sono poche le disperazioni più pure di quella di uno scrittore che deve creare e non ci riesce) a spingerlo a farsi prestare le chiavi della capanna di Carter Benson per usarla finché gli sarebbe servita. Fortunatamente Benson aveva appena firmato un contratto di sei mesi con uno studio di Hollywood e, almeno per quel periodo, non l’avrebbe utilizzata.

Così, lì era Luke Devereaux, e lì sarebbe rimasto finché non avesse concepito e iniziato un libro. Non l’avrebbe dovuto finire lì; una volta partito, sapeva che sarebbe riuscito a proseguirlo nel suo habitat originario, dove non sarebbe stato necessario negarsi qualche serata con Rosalind Hall.

Adesso erano tre giorni che cercava di concentrarsi, dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, camminando su e giù. Sobrio, a volte quasi impazzendo. La sera, perché sapeva che spremersi il cervello per un tempo ancora maggiore gli avrebbe fatto più male che bene, si concedeva di rilassarsi, leggere e bere qualche goccio. Per la precisione, cinque bicchieri: una quantità che, lui sapeva, l’avrebbe rilassato senza ubriacarlo e senza dargli i postumi della sbornia il mattino seguente. Intervallava con cura quei cinque bicchieri, in modo che durassero tutta la sera, fino alle undici. Le undici in punto erano l’ora di andare a letto quando era alla capanna. Non c’è niente che faccia bene come gli orari regolari… eccetto che finora non l’avevano aiutato molto.

Alle 8.14 si era preparato il terzo bicchiere, che sarebbe durato fino alle nove, e aveva appena finito di bere il secondo sorso. Stava cercando di leggere, senza riuscirci granché, perché la sua mente, proprio ora che cercava di concentrarsi sulla lettura, voleva invece pensare alla scrittura. La mente fa spesso così.

E probabilmente proprio perché non ci stava provando, stava arrivando più vicino a un’idea di quanto ormai non gli succedeva da tanto tempo. Si stava pigramente chiedendo: e se i marziani…