Mia madre visitò il Tech-Sergente Tushar Nariman verificando che non avesse piattole o emorroidi. Il resto dell’unità rifiutò di farsi ispezionare il pube da una donna. I loro occhi s’incontrarono per un audace, fragile istante.

Se il Ministero della Difesa fosse stato meno superficiale nel richiamare i cyber guerrieri, assegnando all’Ottava Squadra di Macha-Ricognitori di Ahmedabad  un analista di sicurezza esperto invece di un designer di giochi, l’attacco della Forza d’Assalto Tigre del Bharat avrebbe fatto meno vittime. Un nome nuovo circolava nel vecchio Uttar Pradesh orientale e nel Bihar; Bharat, l’antico nome sacro dell’India; la sua bandiera con il filatoio era piantata a Varanasi, la più vecchia e la più pura delle città. 

Come in ogni movimento di liberazione nazionale, c’erano dozzine di gruppi guerriglieri, ognuno con un nome più terrificante dell’altro e in incerta alleanza fra di loro. La Forza d’Assalto Tigre era l’embrione dell’élite del cyber esercito del Bharat. E a differenza di Tushar, erano dei professionisti. Alle 21:23 erano riusciti a penetrare il firewall dell’Ottavo Ahmedabad e a impiantare dei trojan nei ricognitori. 

Mentre mio padre si tirava su i pantaloni dopo che la pila elettrica e le dita tremanti della mia futura madre gli avevano ispezionato il suo piccolo buco rosa, la  Forza d’Assalto Tigre prese il controllo dei robot, per poi dedicarsi all’ospedale da campo.

Papà, che Lord Shiva ti benedica per la tua vigliaccheria e la tua ciccia, quando venne aperto il fuoco, sarebbe uscito di corsa in mezzo alla sabbia per vedere cosa stava succedendo. Un eroe sarebbe morto nel fuoco incrociato, oppure, finite le munizioni, trafitto da una lama. Al primo sparo, mio padre invece si gettò subito sotto la scrivania.

– Sta’ giù! – sibilò a mia madre, raggelata in un’espressione perplessa e sconcertata. La tirò giù, subito scusandosi per quell’intimità sconveniente. Si scusò, anche se lei gli aveva da poco tenuto in mano i testicoli. Si inginocchiarono nella nicchia sotto la scrivania, fianco a fianco, mentre gli spari, le grida e il terribile, artritico click click click delle giunture meccaniche turbinavano attorno a loro, e a poco a poco rimasero solo le grida e i click, quindi solo i click e infine nulla, il silenzio. 

In ginocchio, l’uno accanto all’altra, tremanti di paura, mia madre a quattro zampe come un cane, fino a quando non si mise a tremare per lo sforzo; ma aveva paura a muoversi, a fare il benché minimo rumore che potesse attirare le ombre furtive che si stagliavano attraverso la finestra. Le ombre si allungarono e si fecero più scure prima che osasse chiedere con un filo di voce: – Cos’è successo?

– Hanno piratato i ricognitori –  rispose mio padre. A quel punto divenne un eroe agli occhi di mia mamma. – Vado a dare un’occhiata. – Uscì strisciando da sotto la scrivania, attento a non fare alcun rumore, a non disturbare il più piccolo frammento di vetro o legno che ricopriva il pavimento, trascinandosi fin sotto la finestra. Poi, millimetro dopo millimetro, si alzò lentamente su un fianco e si mise accovacciato. Guardò fuori e subito si buttò a terra, iniziando lo spossante ritorno a carponi.

– Sono là fuori –  sussurrò. – Uccideranno qualsiasi cosa si muova.

Disse queste parole scandendole, per farle sembrare come i naturali scricchiolii e le contrazioni di una capanna portatile su una spiaggia del Gange.

– Magari finiscono la benzina – ribatté mia madre.

– Vanno a batterie solari. – Questo tipo di conversazione prendeva molto tempo. – Possono aspettare per l’eternità. 

Quindi iniziò a piovere. Era un forte temporale, un precursore del monsone che si stava ancora snodando nel Golfo del Bengala, come qualcuno che precede un nobile con una bandiera o una tromba per far sapere al mondo che sta arrivando un grand’uomo. 

La pioggia batteva sulla tenda come mani su un tamburo. La pioggia sibilava mentre veniva inghiottita dalla sabbia secca. La pioggia rimbalzava sui carapaci di plastica dei robot in ascolto e in attesa. Il canto della pioggia ricopriva ogni rumore, e infatti furono soltanto le vibrazioni della scrivania a far capire a mamma che mio padre stava ridendo. 

– Perché ridi? – sussurrò con voce appena più bassa della pioggia.

– Perché in questo frastuono non mi sentiranno se vado a recuperare il mio palmare – rispose papà, che ai suoi occhi era un uomo coraggioso.

– E allora vedremo chi è che pirata i robot.

– Tushar –  chiamò mia madre in un soffio di voce, ma mio padre stava già strisciando fuori da sotto il tavolo verso il palmare sulla sedia vicino alla porta con la chiusura a lampo. – Ci sono quasi... 

E di colpo smise di piovere come se avessero chiuso il tubo per innaffiare il giardino. Non pioveva più.