Ci sono i robot, ma più che Terminator si respira un certo non so che di Avatar. La fantascienza, al cinema come nei videogame, non deve apparire necessariamente grigia. É attorno a questa idea che si sviluppa lo scenario “post-post-apocalittico”di Enslaved: Odyssey to the West in cui l'umanità, annientatasi da sola con le guerre, ha finito per riconsegnare la Terra alla natura. Il verde degli alberi, il blu degli oceani e l'azzurro del cielo hanno ripreso violentemente il sopravvento sulle macerie della nostra civiltà, nell'emblematico paesaggio alieno di New York dove, centocinquant'anni da oggi, comincia l'avventura di Monkey e Trip. Il primo, forzuto e impulsivo, è controllato direttamente dal giocatore che, per riconquistare la propria libertà, deve aiutare la seconda, indifesa e impaurita, a tornare a casa, un lontano villaggio a ovest.

Nell'itinerario, irto di pericoli da superare unicamente collaborando l'uno con l'altra, si rilegge - mediato in fantascienza dalla scrittura del direttore creativo della software house Tameem Antoniades e dello sceneggiatore di Sunshine Alex Garland, che citano lo humor di Star Wars e subiscono il fascino zen di Matrix - il classico della letteratura cinese Viaggio in occidente. Non soltanto i protagonisti, che provengono direttamente dall'opera.

Su Monkey in particolare è stato svolto un lavoro egregio di caratterizzazione, al quale hanno collaborato vari talenti, dal grafico Alex Taini all'attore Andy Serkis, che lo ha animato attraverso la performance capture con cui aveva già portato su grande schermo Gollum e King Kong. In questo modo, pur restando indiscutibilmente umano, il “Re scimmia” di Enslaved conserva tratti animaleschi, soprattutto quando si arrampica, nella fluidità delle sue movenze acrobatiche.

La performance capture ha permesso inoltre di ottenere un'espressività raramente vista in un videogame, al punto che in diverse scene i personaggi parlano senza bisogno di aprire bocca. Sarà pure un simulacro virtuale, ma il terrore di Trip glielo si legge nello sguardo, così come la complicità un po' naif del bizzarro Pigsy o la furia di Monkey, enfatizzata dalla telecamera che stringe sugli occhi dell'eroe mentre vibra il colpo decisivo sul nemico. L'accento è costantemente sulla spettacolarizzazione, anche a scapito dell'ampiezza di manovra o del percorso, quasi sempre rigidamente prestabilito da una regia invisibile che non consente di sbagliare strada o appigli.

Semplice ma buono, Enslaved raccoglie in fondo in sé la quintessenza dell'avventura d'azione contemporanea, un mix di sequenze cinematografiche, enigmi, combattimenti ed esplorazione, già fissato nel 2003 da Prince of Persia: Le sabbie del tempo, e man mano divenuto più affine all'incedere implacabile di un film che ai vecchi videogame. D'altronde, in questo viaggio ai confini della conoscenza, accompagnati dalle emozionanti musiche di Nitin Sawhney, altro elemento che avvicina il gioco a un raffinato lungometraggio, non sono importanti unicamente la singole tappe, la crescita graduale che investe i personaggi, ma in definitiva il traguardo, che consegna la chiave di lettura – nel caso del titolo di Ninja Theory squisitamente fantascientifica – per ripensare un'intera esistenza. Con una domanda: quale eredità lasceremo per chi verà dopo di noi? Un insensibile mondo di robot?