Glenn Schofield ed Electronic Arts possono essere contenti. Hanno vinto la scommessa di Dead Space. Un titolo che potrebbe rappresentare uno spartiacque dopo anni bui e segnare l’inizio di un rinascimento digitale per il colosso americano. Comunque andrà a finire, si tratta di una tessera importante nella storia di una casa che ha costruito la sua fortuna su acquisizioni imponenti, licenze prestigiose e che però ha deciso di ripartire da un progetto interno originale, coccolato con amore da un team più piccolo del solito, ma ricco di talenti e ancora capace di divertirsi, tra un gargarismo e l’altro con lo yogurt, in sala di doppiaggio, a dare la voce ai loro mostri. Ed è proprio questa dimensione, sospesa tra la spettacolarità del blockbuster e la passione del prodotto artigianale, a fare di Dead Space, oltreché il migliore videogame made in Electronic Arts dell’ultimo periodo, anche e soprattutto un punto di riferimento fondamentale per i giochi che lo seguiranno.

Il viaggio dell’astronauta Isaac Clarke dentro e fuori il relitto del cargo minerario Usg Ishimura, enorme nave spaziale con la quale si sono persi misteriosamente i contatti, è un compendio perfettamente riuscito del videogioco contemporaneo. Da Doom a Bioshock, da Half-Life a Resident Evil. Il tutto declinato nel segno assoluto della science fiction che non manca di far scontrare ancora una volta fede e scienza, senza necessariamente risolvere il dilemma, mentre si premura di citare continuamente i film di genere: Alien (l’infestazione), Fantasmi da Marte (il fanatismo pseudoreligioso), Event Horizon (l’astronave maledetta), La cosa di Carpenter (le raccapricciati creature), persino un pizzico di 2001: Odissea nello spazio (il totem alieno) e Solaris (nel materializzarsi dei ricordi). Citazione nella citazione, la voce non troppo mediata di Dario Argento, che interpreta un comprimario.

È tuttavia una massima del cinema horror a insinuarsi più profondamente nel tessuto ludico di Dead Space. Seguendo gli insegnamenti della Casa di Sam Raimi, non ci si può limitare a uccidere i mostri, che bisogna piuttosto fare letteralmente a pezzi sopperendo ai caricatori con la fantasia, affinché gli abomini non ritornino. Gli smembramenti – e le soluzioni creative che stimolano - sono la cifra stilistica a tinte forti del gioco, che procede con ritmo serrato, scosso dagli immancabili toni western, senza però sacrificare l’atmosfera straniante di un’avventura pressoché solitaria nello spazio.

L’incubo che si ritrova a vivere Isaac è riassunto efficacemente in una sezione in cui, saliti su una piattaforma, si attraversa a forte velocità un tunnel. Si è come sparati in una catena di eventi che fanno presagire il peggio e, man mano che si scava a caccia di un barlume di luce, si viene invece avvolti sempre più dall’oscurità dell’abisso. Al coinvolgimento dell’esperienza collabora la scelta di ambientare praticamente per intero Dead Space in un unico grande scenario che dona compattezza narrativa, l’Ishimura esplorata nei suoi vari livelli, con ovattate escursioni a gravità zero, gite nei laboratori medici, tour delle serre, appuntamenti all’osservatorio stellare. Ogni locale, ogni oggetto, a cominciare dai cartelli e dai poster alle pareti, sono inseriti minuziosamente in un contesto che non manca di richiamare il linguaggio dei fumetti (in comics era il prologo; Warren Ellis ha lavorato al soggetto del videogame) e mostra, dalla sequenza iniziale all’apoteosi del finale, passando per momenti di impatto intenso e obbrobri gargantueschi, una sapienza tecnica ineccepibile, degna della più celebrata scuola giapponese. D'America.