A Donato Altomare, l'ultimo vincitore del Premio urania con Il dono di Svet e uno dei nostri più importanti scrittori di fantascienza e fantastico.

Nato nel 1951, a Molfetta (BA), dove vive ed esercita la libera professione di Ingegnere civile, Altomare è autore versatile, capace di passare dalla fantascienza (Vladimir Mei, libero agente, Edizioni della Vigna, 2008) alla fiaba (L’Albero delle conchiglie, Tabula Fati, 2008), dal fantastico (Surgeforas, Tabula Fati, 2006) al racconto umoristico (E la padella disse..., Delos Books, 2004). Sue opere sono apparse sulle principali riviste di fantascienza italiane, ma è stato tradotto anche nella Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Serbia, Montenegro, Albania, Ungheria, Finlandia e Slovenia.

 

Nel 2000 ha vinto, con il romanzo Mater Maxima, il Premio Urania e nel 2005 ha vinto la prima edizione del premio Le Ali della Fantasia, con il romanzo inedito Surgeforas. A lui abbiamo chiesto di parlarci di come evitare gli anacronismi e - di conseguenza - cosa significa essere uno scrittore professionista.

Per essere uno scrittore professionista non basta avere buone idee e saper scrivere in italiano, ma bisogna essere, appunto, un professionista. Ma cosa vuol dire essere professionista? Spesso me lo chiedono quando vengo invitato a tenere conferenze sulla mia narrativa. Per spiegarlo ricorro a ciò che mi riesce meglio: raccontare. E cito un aneddoto che ormai è arcinoto per le moltissime volte che l’ho narrato, ma che ripeterò a rischio di passare per uno che non ha nient’altro da dire - e ne ho invece di storie vere da raccontare! -, perché spiega perfettamente la differenza tra un dilettante e un professionista.

Tempo fa seppi di un concorso di narrativa fantastica. Avevo una buona idea e scrivevo benino, quindi mi gettai nell’impresa. Scrissi il racconto quasi di getto, in poco tempo, poi lo corressi e pensai che fosse a posto. Il titolo di quel racconto era Belladinotte e narrava la storia di una strega moderna. Si svolgeva a Sibari, durante una gara di windsurf. Certo tutti voi conoscete il windsurf, la tavola a vela. Tanto la mia bellissima strega che il protagonista principale del racconto erano campioni di windsurf, e il loro primo incontro avveniva proprio durante una gara.

Essendo allora alquanto giovane e insicuro, facevo leggere i miei racconti a parenti e amici per conoscere il loro pensiero. Così diedi il racconto a mio fratello Enzo, appassionato praticante di windsurf. Lui lo lesse e mi disse: - Il racconto è bellissimo, però si vede che non capisci niente di windsurf.

Ci rimasi male, ma era vero. Non ne capivo nulla, eppure avevo avuto la presunzione di scrivere un racconto interamente basato su quello sport. Cercai di porvi rimedio correndo nella libreria dove acquistavo i miei libri di fantascienza e ne trovai uno il cui titolo era: Il Windsurf in dieci lezioni. A casa lo lessi d’un fiato. Non solo, ma lo studiai attentamente, rendendomi conto di quante sciocchezze avevo scritto su quello sport e di tutti gli errori che avevo commesso. Imparai che c’erano sostanzialmente due tipi di tavole, che per le gare ce n’è una particolare e che per il windsurf si usava lo stesso linguaggio delle barche a vela. Così ripresi il mio racconto e lo riscrissi - sì, proprio lo riscrissi, perché allora usavo una macchina per scrivere e non il computer, quindi quando facevo qualche correzione dovevo ribattere a macchina tutto il racconto -, lo riscrissi, dicevo, correggendo tutti gli errori che avevo fatto e utilizzando un linguaggio più consono. Soddisfatto lo mandai al concorso e lo vinsi.

Con gioia andai a ritirare il premio. Quando giunse il mio turno e sentii pronunciare il mio nome dal presidente della giuria, con molta emozione mi avvicinai. Il presidente mi strinse la mano e mi diede il premio, poi mi disse: - Sa, Altomare, il suo racconto mi è piaciuto tantissimo. Però bisogna ammettere che lei è stato agevolato.

Non capendo a cosa si riferisse, chiesi: - Perché?

- Ma perché si vede che lei è un campione di windsurf!

Ecco. Fu in quel preciso momento che capii cosa poteva fare di me uno scrittore professionista: documentarsi.

Perché questa premessa? Semplice, per parlare della genesi de L’Albero delle Conchiglie, un mio romanzo breve che si ispira ad una leggenda marinara fiorita a Molfetta sulla cosiddetta Scogliera delle Monacelle.

La documentazione, specie per un romanzo del genere, è vitale. La difficoltà di scrivere una storia collocata in un particolare contesto storico è tutta nel rischio degli anacronismi. Non dimentichiamo che è stata ambientata  nel dodicesimo secolo, cioè dopo il 1100. Se cerchiamo il termine anacronismo sul Vocabolario della lingua italiana della Treccani, leggiamo: Errore cronologico per cui si pongono certi fatti in tempi in cui non sono avvenuti e, in special modo, si attribuiscono a un’età istituti, idee e costumi discordanti dal quadro storico di essa. Insomma, dire di oggetti che, al tempo della narrazione, non potevano esistere o di episodi che non potevano essere avvenuti.

Credo che un esempio possa essere più chiaro di qualsiasi definizione. Un evidente anacronismo è un orologio da polso al braccio di un soldato romano, oppure parlare della repubblica italiana quando Giotto dipingeva i suoi capolavori.