Dopo il grande e meritato successo di Le conseguenze dell'amore e - ancora prima - del film d'esordio L'uomo in più, il regista napoletano Paolo Sorrentino torna a flirtare con le suggestioni e le inquietudini della nostra epoca in L'amico di famiglia, terzo capitolo di un'ideale trilogia della solitudine.

Per farlo racconta la storia di Geremia De Geremei, piccolo usuraio dell'agro pontino, angariato da una vecchia madre, maniaco sessuale e morboso nei confronti di tutto ciò che possiede o che vorrebbe possedere. Un essere concupisciente, una figura inquietante, un troll suburbano dal potere 'assoluto', garantitogli dal denaro, ma - soprattutto - da un'innata e rabbiosa violenza e un odio nei confronti degli 'altri'. Quegli esseri 'normali' che dilapidano denaro e buoni propositi in nome del superfluo.

Tuttavia Geremia non è un mostro. Anche se, forse, potendo, in fondo si vanterebbe di esserlo. E' un essere a metà. Un mezzuomo non del tutto privo di fascino, ma sofferente la propria bruttezza e tormentato da quella altrui. In particolare da quella delle belle ragazze che gli passano accanto degnandolo al massimo di uno sguardo di commiserazione se non di ribrezzo. Un giorno a Geremia viene chiesto di prestare del denaro alla famiglia di una ragazza bella, insolente e marcia dentro, esattamente come lui.

Può essere amore a prima vista? Geremia potrebbe essere ricambiato. Oppure tutto questo è parte di un qualcosa più grande di lui? Una trappola emotiva così pericolosa da diventare fatale?

L'Amico di famiglia è un capolavoro.

Un film perfetto in cui Paolo Sorrentino distilla le inquietudini della nostra epoca e della sua generazione, iniettando elementi di cultura pop in un film dal sapore molto classico in cui Geremia è l'erede di grandi brutti o rinnegati della storia del teatro o del cinema.

Rigoletto, Shylock, Cyrano, Riccardo III sono tutte figure cui, forse, Geremia vorrebbe potere assomigliare di cui vorrebbe sicuramente condividere la gloriosa tragicità. Ma non è così. Geremia è talmente insignificante da non assurgere nemmeno a figura pienamente tragica. Geremia è un essere patetico invischiato in un noir urbano violento e spietato. Al tempo stesso, però, il suo è un dramma debole, piccolo borghese: qualcosa che non lascia traccia. Almeno non più delle monetine nascoste nella sabbia delle spiagge che lui si diverte a setacciare con il suo metal detector.

Geremia è un personaggio da commedia amara. Una persona cui ricorrere quando i nostri drammi personali hanno bisogno di essere tamponati. La sua funzione sociale è indiscutibile così come il disprezzo che riceve da coloro che aiuta. Emarginato e disperato è un uomo che attende al guado le sue vittime con l'odio di chi - come Shylock - è stato allontanato e denigrato.

Al tempo steso, però, Geremia è destinato ad una brutta fine. La società cui ricorda debolezze e vizi eliminerà il parassita che succhia linfa vitale. Così, inconsapevolmente, Sorrentino tratta l'usuraio come Nosferatu. La bella si offrirà a lui fino ad un'alba in cui il vampiro sarà costretto a scomparire.

Non in una nuvoletta di fumo come nel film di Murnau, ma - più pedissequamente - in un lampo di disonore e vergogna.

In questo senso L'amico di famiglia rappresenta un unicum nel panorama cinematografico italiano. I 36 anni del regista napoletano, fanno del suo lavoro quello di un autore di riferimento per un'intera generazione di persone.

Sorrentino è - attualmente - il Fellini di tutti quelli che sono nati tra la metà degli anni Sessanta e degli anni Settanta. Il suo cinema visivamente potente, ossessivamente curato e deflagrante sotto il profilo sociale e politico, nasce in un immaginario collettivo dove - attraverso il racconto di figure ai limiti della società - tutti quanti possiamo riconoscersi in un crescendo drammatico di inquietudine e disperazione urbana.

L'amico di famiglia è un film sulla nostra cattiva coscienza. Un capolavoro intenso ed emozionante in cui - tra cattivi pensieri e basse aspirazioni - emerge il lato più fragile e toccante di un'umanità disperata. Di cui ridere cinicamente e per cui - al tempo stesso - commuoversi.

Come scrisse Jean Genet "il comico è il tragico visto di spalle". Lo stesso vale per L'amico di famiglia, una commedia amara e violenta, un thriller dell'anima morboso e ossessivo, dove l'inganno peggiore è la trappola in cui Sorrentino fa cadere la nostra coscienza.