Pur ispirato da un lodevole intento storicistico, molto lontano dalle anacronistiche prese di coscienza invocate da certa stampa di sinistra, El Alamein soffre di alcune pesanti carenze dal punto di vista narrativo. Illuminato da un'eccezionale fotografia sabbiosa (la più bella dell'anno insieme a quella di Respiro di Emanuele Crialese) e interpretato in maniera molto solida da un gruppo di giovani attori poco conosciuti e molto affiatati, El Alamein soccombe nel suo volere essere involontariamente una sorta di "Deserto dei Tartari" post moderno, ma corretto dal punto di vista storico, in cui la battaglia in cui morirono oltre novemila soldati italiani sembra passare in secondo piano rispetto all'attesa del combattimento (risolto in poche sequenze) rispetto lunghissimi dialoghi ed ancora più tediose passeggiate attraverso il deserto. La sensibilità di Monteleone, infatti, pur avvicinandoci in maniera mirabile allo spirito che regnava nelle trincee italiane popolate di soldati male armati, peggio nutriti, e quasi per nulla equipaggiati, perde spessore e compiutezza quando tenta di fotografare l'anima di un gruppo di soldati diventati eroi per caso di una guerra che non avevano mai veramente compreso prima del suo atto finale. Per quanto l'umanità dei protagonisti sia raccontata in dettaglio, complici anche una serie di interviste che il regista ha effettuato tra i superstiti delle nostre divisioni, presentate a Venezia nel toccante documentario I ragazzi di El Alamein, Monteleone sembra non riuscire a tirare perfettamente le trame di una narrazione che spesso risulta frammentaria, aneddotica ed irrisolta. Un atto dovuto comunque alla memoria di tanti eroi senza nome, per uno dei migliori film di guerra italiani di sempre, perché in grado di rinunciare senza mezzi termini al ricatto della commedia all'italiana per cui "gli italiani brava gente" sapevano fare anche tanto ridere. Una pellicola che avrebbe necessitato di una maggiore compattezza narrativa (perfino forzosa) per coinvolgere davvero lo spettatore.