Apes Revolution è l’ottavo film di una serie che, diciamolo chiaramente, dal punto di vista della qualità vanta una media piuttosto bassa. Se il primo film, quello con Charlton Heston del 1968, resta un classico di ottimo livello, la sfilza di seguiti che ne scaturì discese la china piuttosto rapidamente. E pessimo e in più deludente, visto il nome del regista, fu anche il remake di Tim Burton del 2001.

Questa nuova serie, iniziata nel 2011 con Rise of the Planet of the Apes, da noi intitolato con una buona ma sfortunata traduzione L’alba del pianeta delle scimmie, partiva dalla buona posizione di non poter fare peggio. E la pellicola di Ruper Wyatt tutto sommato riusciva a non deludere. La storia raccontata era quella della nascita delle scimmie intelligenti, quindi, in linea teorica, più o meno la fase della storia raccontata precedentemente tra Fuga dal pianeta delle scimmie e 1999: La conquista della terra. Ma se nella prima serie le scimmie intelligenti nascono a causa di un loop temporale (Cesare è il figlio di due scimpanzé del futuro andati indietro nel tempo), qui il tema trattato è quello degli esperimenti sugli animali. La storia si svolge in modo decisamente diverso e con qualche tema interessante. 

Sfortuna ha voluto che il seguito si intitolasse Dawn of the Planet of the Apes; mandando nel panico i distributori italiani che se col primo film avevano trovato una traduzione del titolo convincente, stavolta si arrampicano sugli specchi inventandosi un improbabile titolo in inglese, Apes Revolution. Crediamo che solo in Italia si traducano i titoli dei film con altri titoli in inglese. Il film ha comunque titoli simili in molti paesi del mondo: quasi ovunque i titoli sono la traduzione di "Il pianeta delle scimmie: il confronto" o "Il pianeta delle scimmie: rivoluzione"; in qualche paese la "r" di rivoluzione è tra parentesi, proponendo quindi un gioco di parole con "evoluzione". 

Le aspettative

Continuando il parallelo con la prima serie, la storia che viene raccontata corrisponde a grandi linee a quella di Anno 2670: ultimo atto, ovvero il confronto tra il pacifico Cesare e la frangia più “militarista” delle scimmie. Anche all’epoca i titolisti italiani davano il meglio: basta notare che gli eventi di Anno 2670 si svolgono dieci anni dopo quelli di 1999 La conquista della terra.

Non solo il pubblico, ma persino la critica sembra aver accolto positivamente il film di Matt Reeves, regista prevalentemente televisivo arrivato al cinema con l’ottimo Cloverfield. 8,2 il voto medio su IMDb, 91% di apprezzamento della critica secondo Rotten Tomatoes, con un voto medio di 7,9.

A questo punto allora ci viene il dubbio che il problema possa essere più nostro che del film. Perché noi lo abbiamo trovato semplicistico, scritto malissimo e con personaggi meno profondi degli stand up di cartone vicino alla cassa del cinema.

Forse non saremmo così critici se fossimo entrati in sala aspettandoci il solito baraccone di effetti speciali a cui sono purtroppo spesso ridotti i film di fantascienza; visti i riscontri positivi ci si aspettava qualcosa di più. Chi lo sa. 

La trama

È passata una decina d’anni dagli eventi del primo film. Il 95% degli esseri umani è stato sterminato dal “virus delle scimmie”, e la comunità di scimmie intelligenti ha prosperato nei boschi a nord di San Francisco.

La storia è speculare: da una parte ci sono le scimmie, dall’altra gli umani; il capo delle scimmie, Cesare, teme gli umani ma vorrebbe la pace; dall’altra parte uno dei capi della comunità umana di San Francisco ha capito che le scimmie sono intelligenti e pacifiche, e cerca il rapporto di fiducia. Ma tra le scimmie c’è Koba che odia gli umani che lo hanno sottoposto a esperimenti crudeli, e tra gli uomini c’è Dreyfus che considera le scimmie animali e pensa solo a come distruggerle.

Per sopravvivere a San Francisco gli uomini hanno bisogno di energia. Già esaurito chissà come tutto il carburante, non altro altra scelta se non riattivare una centrale idroelettrica che si trova nel territorio boschivo oltre il Golden Gate. 

Proprio in quel territorio però si sono stanziate le scimmie intelligenti fuggite da San Francisco nel primo film. Hanno una loro piccola città nella quale apparentemente vive forse un centinaio di scimmie, prevalentemente scimpanzé, qualche gorilla e un paio di oranghi. Più avanti nel film quando si scatena la vera e propria guerra con gli umani, le scimmie diventano migliaia. Al che il nerd che è in noi non può fare a meno di chiedersi “ma da dove vengono tutti questi scimpanzé?” Sono passati dieci anni; gli scimpanzé hanno un tasso di riproduzione molto inferiore a quello umano, un cucciolo per volta mediamente ogni cinque anni. E una mortalità infantile elevata. In quel tempo il loro numero avrebbe potuto, a essere molto generosi, al massimo raddoppiare. Ci troviamo invece di fronte a eserciti di scimpanzé che sciamano riempiendo le strade, alcune anche a cavallo (ok, fanno la loro scena, ma senza staffe e con quelle zampette corte dovrebbero cadere appena il cavallo fa un passo).

D’accordo: le scimmie sono una metafora degli esseri umani, inutile farsi troppe domande; anche se, naturalmente, se nei film originali le scimmie erano davvero quasi del tutto umane, andavano in giro vestite, avevano case, camminavano erette come gli esseri umani, in queste nuove produzioni si cerca una verosimiglianza molto maggiore, le scimmie sono scimmie, saltano tra i rami (incluso Koba che compie evoluzioni volanti strabilianti, soprattutto per uno scimpanzé cieco da un occhio e quindi privo della visione tridimensionale) e, anche se alcune se la cavano abbastanza bene col linguaggio umano, parlano per lo più a gesti: lingua che hanno sviluppato in modo straordinario riuscendo a esprimere con un solo movimento della mano concetti complessi che richiedono due righe di sottotitoli.

Scimmie indiane

Ma le scimmie non hanno ancora imparato a coniugare i verbi e continuano a parlare all’infinito, anche nei sottotitoli che traducono i gesti. Per andare in battaglia si ornano il pelo con disegni rituali, e come dicevamo cavalcano a pelo, senza sella. Le scimmie, insomma, nella visione degli autori del film sono gli indiani: sono gli uomini che vivono a contatto con la natura, gli uomini regrediti al loro stato naturale, puro, primitivo, e ciononostante quel barlume di civiltà che li ha contagiati letteralmente come un virus - perché le scimmie sono intelligenti proprio a causa dello stesso virus che ha causato la quasi estinzione degli esseri umani - spezza questa purezza portando con sé il germe della violenza e della sopraffazione. Civiltà e violenza, insomma, non sono valori antitetici, ma semplicemente le due facce inseparabili della stessa medaglia.

Se il film, apparentemente pacifista, vuole dire qualcosa, oltre alla classica considerazione per cui “tutto sommato, anche le scimmie sono esseri umani”, è che la ragione sta dalla parte di chi vuole la guerra, e chi cerca la pace viene regolarmente tradito e alla fine deve smetterla di sognare e affrontare la realtà.

Personaggi in 2D e scene in 3D

La storia persegue la dimostrazione di questa teoria portando avanti una trama prevedibile fino all’ultimo dettaglio, con personaggi che immolano alla causa ogni barlume di personalità comportandosi esattamente come ci si aspetta da loro. C’è il buzzurro pieno di pregiudizi razzisti (Kirk Acevedo, il ”Charlie” di Fringe), c’è il ragazzo sognatore che fa disegni (Kodi Smit-McPhee), c’è il saggio nonno orango che insegna ai piccoli a scrivere (”interpretato” da una donna, Karin Konoval), c’è la compagna fedele medico (Keri Russell, dalla serie tv Felicity); perché sì, quando una civiltà regredisce a livello primitivo naturalmente il ruolo delle donne regredisce in pari misura: se tra gli uomini la donna può essere al massimo quella che presta le cure, tra le scimmie, l’unica femmina ha il ruolo di madre per i figli di Cesare.

Il protagonista, Jason Clarke, è il buono: quello che crede nella pace fino a rischiare la vita con incoscienza, quello che non riesce a immaginare che gli altri possano non essere pacifici come lui, ma che quando se ne rende conto invece di provare a discutere non esita a puntare un fucile automatico contro persone con le quali ha vissuto per anni.

Persino il povero Gary Oldman, attore eccellente che cerca di fare quello che può per dare colore a un personaggio monocromatico, arriva all’assurdità di un gesto finale tanto evidentemente assurdo quanto clamorosamente disatteso negli effetti annunciati, senza alcuna spiegazione, tanto da lasciare lo spettatore incredulo.

L’unico personaggio del quale si riesca a scorgere un minimo di profondità senza usare gli occhialini 3D è proprio il Cesare interpretato da Andy Serkis, probabilmente soprattutto grazie alle doti di questo attore che riesce a rappresentare il tormento interiore del capo delle scimmie, diviso tra la fiducia negli individui e la sfiducia nella specie umana.

Non abbiamo visto il film in versione 3D, anche perché - parere nostro - in generale non ci sembra che i film che non abbiano una dose preponderante di computergrafica (e non è questo il caso) ne traggano vantaggio. Il film ha comunque una sua spettacolarità, alcune scene nella San Francisco disabitata, ma in generale sembra puntare più sulla trama che sull’aspetto visivo; peccato quindi si sia rimasti a un livello così superficiale.

Nell’estate del 2016 arriverà il terzo film della serie; il regista sarà ancora Matt Reeves.