– Ehi, stavo ascoltando.

– Per favore. Solo finché non arriviamo.

– Hai problemi con la musica?

– Con qualcuna sì.

Il conducente fa spallucce. Non gli importa davvero, fa solo finta. Con un’ondata di panico al pensiero di averla lasciata cadere nella neve, mi do un altro colpetto sulla tasca. Ma la scatoletta di metallo è ancora lì, insieme al pass di sicurezza del dottor Kizim.

Ci vuole tutta la mia forza di volontà per non tirarla fuori e girare la piccola manovella che la fa suonare. Non perché possa sopportare di sentirla di nuovo, ma perché voglio essere sicuro che funzioni ancora.

Le luci posteriori dello spazzaneve svaniscono nella notte. Il conducente ha mantenuto la parola, superando il posto di controllo abbandonato e portandomi al primo incrocio dentro i confini della cittadina e non oltre. È stato bello scaldarsi un po’, i vestiti cominciavano ad asciugarsi, ma ora che sono di nuovo all’esterno al gelo bastano pochi secondi per arrivarmi alle ossa. La tormenta si è calmata durante il viaggio, ma la neve cade ancora, scendendo in soffici vortici dal cielo latteo che precede l’alba.

Di prima ora Zvëzdnyj Gorodok mostra tutti i segnali di essere disabitata. Gli isolati residenziali sono per lo più al buio, a parte l’occasionale finestra illuminata: un pallido rettangolo giallo chiuso dalle tende sulla facciata dell’edificio, per il resto immerso nell’oscurità. Le costruzioni, arretrate e disposte in lunghe file rispetto alle strade che si incrociano, sembrano tutte tristemente uguali, come se fossero state impresse da un’unica macchina. Persino i manifesti del partito che balenano sulle pareti sono gli stessi su tutti gli edifici. Le stesse facce, gli stessi slogan. Per un attimo mi sembra di essermi imbarcato in un’impresa ridicola e lievemente delirante. Lei potrebbe vivere in uno qualunque di questi casermoni. Mi troveranno molto prima che abbia il tempo di esaminare ogni androne nella speranza di  scoprire il suo nome.

Ho mostrato al conducente l’indirizzo che avevo scritto, preso dall’elenco telefonico sulla scrivania del dottor Kizim. Lui mi ha dato una vaga indicazione di dove dirigermi. Il complesso di appartamenti si trova in qualche punto nei pressi della stazione ferroviaria. Dovrò cercare nelle strade circostanti finché non lo trovo.

– So dov’è la stazione – dico al conducente. – Ero qui quando era un centro di addestramento segreto.

– Avevi a che fare con il programma spaziale?

– Ho fatto la mia parte.

Zvëzdnyj Gorodok: Città Stellata, o Città delle Stelle. Ai vecchi tempi serviva un permesso anche solo per entrarci. Ora che il programma spaziale è terminato — o “ha raggiunto tutti gli obiettivi richiesti”, secondo la linea ufficiale del Secondo Soviet — Zvëzdnyj Gorodok è soltanto un altro posto dove vivere, lavorare e morire. Complessi funzionali di case popolari che si irradiano ben oltre i vecchi confini urbani. Il checkpoint è un rudere abbandonato e i laboratori e le strutture di addestramento sono stati trasformati in disadorni condomini. Oggi ci vivono più agricoltori e operai dell’industria che ingegneri, scienziati ed ex cosmonauti.

Sono fortunato a essere arrivato così lontano.

Sono fuggito da un buco nella recinzione di sicurezza dell’istituto, in un angolo trascurato dietro una delle cucine del complesso. Sapevo del varco da almeno sei mesi, quanto bastava per essere certo che nessun altro lo avesse notato e che non fosse visibile dagli uffici amministrativi o da una telecamera di sorveglianza. Era una vera fortuna che il buco esistesse, ma non sarei comunque arrivato lontano senza l’aiuto del dottor Kizim. Non so se si aspetti che riesca nel mio tentativo di fuga, ma il dottor Kizim — che è sempre stato più solidale degli altri medici con i superstiti della Tereškova — ha chiuso opportunamente un occhio. È suo il cappotto che ho preso. Non sarà una gran protezione contro le bufere, ma senza non sarei mai arrivato allo spazzaneve, per non parlare di Zvëzdnyj Gorodok. Spero solo che non passi troppi guai quando scopriranno che l’ho preso.

Non credo che avrò la possibilità di chiedergli scusa.

La neve ha smesso di cadere e un gelido sole rosa tenta di penetrare la foschia sull’orizzonte a est. Individuo la stazione ferroviaria e comincio a esplorare le strade nei dintorni, sicuro di non potermi sbagliare. Ora si sono accese altre luci e noto i primi movimenti dell’attività quotidiana. Uno o due abitanti mi passano accanto nella neve, ma tengono la testa bassa e non fanno molto caso a me. Sulle strade circolano pochi veicoli, e dato che i treni non passano più l’area intorno alla stazione è quasi completamente priva di attività. Quando una grossa automobile — una limousine Zil, nera e muscolosa come una pantera — imbocca la strada che percorro, non ho il tempo di nascondermi. Ma la Zil mi supera, i pneumatici che spruzzano nevischio fangoso, e mentre passa vedo che dentro non c’è nessuno. Evidentemente sta andando a prendere un funzionario del partito in uno dei quartieri più ricchi.