"Tutti quelli che erano bambini allora, ragazzi allora, sono cresciuti con la paura di Belfagor", ha dichiarato qualche anni fa il critico cinematografico Maurizio Costa in uno speciale televisivo dedicato al nero padrone delle notti nel Louvre. Ignorava che i francesi, forti anche nell'immaginario della grandeur che De Gaulle voleva sul piano geopolitico, meditavano di scendere in campo contro Hollywood sul terreno delle megaproduzioni. Lo scopre oggi il pubblico delle sale italiane, dinanzi all'inatteso regalo di primo autunno, il remake cinematografico dello sceneggiato messo in onda negli anni '60 dall'ORTF e subito acquistato da mamma (oggi nonna) RAI.

E' la stessa tecnica da manuale dell'irretimento di massa collaudato con successo dagli americani. Si prende un serial popolare del passato prossimo e lo si aggiorna al presente. Infatti, gli stessi francesi ci riprovano già con Vidocq. Meglio se vi si aggiunge un'apparizione cammeo del protagonista originale. Dello sceneggiato di Claude Barma, il film di Jean-Paul Salomé propone alcuni fotogrammi di continuity, per legare la vicenda attuale a quella dell'epoca. Senza contare un'affascinante primo piano di Juliette Greco nel cimitero visitato da Sophie Marceau. Trovata, quest'ultima, che si applica anche ai rifacimenti di film, come ha dimostrato la fulminea comparsata di Charlton Heston nel Pianeta delle scimmie versione Tim Burton.

Ma Belfagor ha un motivo in più per evocare competitività. Esce sul grande schermo dopo ben due Mummie non facili da raggiungere per effetti speciali. Che, peraltro, beneficiano di una mitologia collaudata tra i fans dell'horror: la maschera macabra della pellicola di Karl Freund, interpretata nel 1932 da Boris Karloff (produzione Universal), e la ripresa di Terence Fisher con Christopher Lee, che nel 1959 si iscrisse nel ciclo dell'inglese Hammer Films. L'esotismo in technicolor, carico di kitsch e svarioni storici, ha sempre fatto presa sugli europei troppo bendisposti a dimenticare la Storia dei propri millenni per cedere alle suggestioni da ipermercato d'oltreoceano.

Eppure, a metà anni '60, quando i peplum in cinemascope e i telefilm a tutto spiano made in USA avevano già imposto i canoni del fantastico e dell'avventura, irrompe dagli antiquati apparecchi casalinghi a valvole il fantasma del Louvre. Belfagor, come giustamente rievocava Maurizio Costa, ha segnato le paure di una generazione da quell'estate del '66, quando i padri si disperavano per un'Italia esclusa dai mondiali di calcio per colpa di dentista coreano. Le poche note di violino, composte da Antoine Duhamel su ripresa di temi classici, che segnavano le sortite della cupa silhouette accanto alle statue del museo parigino bastavano a sconvolgere l'equilibrio emotivo di giovanissimi già spuntati all'industria dell'evasione. Si trattava di gente abituata a leggere efferatezze come i fumetti neri, che entrava di contrabbando nelle sale dove si proiettavano film vietati ai minori, ad esempio Il boia scarlatto, sadomaso di culto. Ma niente superava le correnti di adrenalina scatenate dalle centellinatissime presenze di Belfagor. Né l'incubo fu cancellato dal finale, che rivelava nel fantasma una donna in carne ed ossa, l'incomparabile Juliette Greco, la musa di Saint-Germain-des-Prés, voce di quella chanson française cui nessun altro Paese ha saputo dare adeguate controproposte e coltissima alfiera dell'esistenzialismo, amica di Jean-Paul Sartre. Per le menti in sboccio di ragazzi nati dal boom la razionalità delle spiegazioni non prendeva corpo. Belfagor restava stampato nei terrori notturni come IL fantasma e basta, non la sorella gemella, secondo la migliore tradizione del feuilleton, della protagonista, sfruttata da una società segreta per localizzare il prezioso minerale detto oricalco che si trova nei sotterranei del Louvre. Tanto che, ancora un lustro fa, gli psicologi segnalavano lo sceneggiato francese come uno dei programmi più rischiosi per gli spettatori minorenni.