Pesanti braccialetti alle caviglie… il fuoco sulla sabbia formava cristalli scuri. Le danzavano negli occhi i riflessi delle fiamme che nascondevano colore e pensieri.

Davanti, il mare con piccole onde che morivano sulla sabbia; dietro le spalle, i boschi d’aranci della Spagna meridionale.

Che stagione… breve e bruciata, con le giornate che non finivano mai, e le notti corte e piene di suoni di chitarra. Adesso stava finendo: già la sera finiva prima, e i refoli di vento sul mare erano quasi freschi sulla pelle.

Era partita un secolo prima per vedere il mondo: faceva freddo nel suo paese, e la pelle era chiara anche d’estate, perché il sole non aveva la forza di tingere. Qui invece era una cosa che bruciava e prosciugava, lasciando a volte senza forze, storditi, pieni solo di gioia di vivere, senza neppure un pensiero.

Raccolse l’orlo della gonna dalla sabbia e si alzò con una mossa piena di quella nuova stanchezza rilassata che aveva imparato insieme a tante altre cose.

– È tardi… vado a dormire…

Cico la guardò con gli occhi colore della notte, e si alzò in silenzio: era tutta l’estate che le stava vicino e adesso sapeva che era venuto il suo momento.

Lei era piena di tristezza all’idea che la sua vacanza stava per finire, e voleva imparare tutto il possibile.

Così, sottile, e bionda, e bruciata, non lo respinse come aveva sempre fatto, ma si avviò con lui verso le tende. Un accordo di chitarra accennò le prime note della marcia nuziale.

Lei si voltò ridendo verso il gruppo di ragazzi, e incontrò gli occhi di lui che la seguiva.

Era serio, terribilmente serio. L’amore era una cosa che riempiva la vita, quella stagione, e se qualcuno ne rideva era solo per darsi un contegno.

La mattina l’acqua era tiepida, dentro la borraccia, ma era dolce da bere, un sorso per uno.

Ricordava tutto.

Ricordava tutto di quell’estate: se chiudeva gli occhi, rivedeva la schiena dorata di Cico, i suoi corti capelli neri, la pelle liscia dove era bello passare le dita, e i giochi che facevano, dolci, dolci.

Poi era tornata nel suo paese di betulle, dove gli uomini prendevano la vita sul serio perché era dura, e difficile da vivere.

Per un poco aveva vissuto tra i vecchi compagni immersa in un’altra realtà. Gnomi dispettosi le sovrapponevano immagini colorate alle finestre, e alzandosi la mattina, nella neve vedeva spuntare arance e piangeva.

Poi, con l’ultimo resto di abbronzatura se ne andò forse anche il senso di ribellione, e fu catturata dalla logica della sua vita. Infilò il candido grembiule di sua madre, e cominciò a sbucciare patate.

Occhiate compiaciute si incrociavano intorno a lei: aveva capito.

Fu dopo un mese di quella vita che arrivarono.

Era sera. Era quasi sempre sera nel suo paese, e improvvisamente un’aurora fuori tempo illuminò la città.

L’attimo dopo una voce che non si capiva da dove uscisse, urlò minacciosa: – Che le streghe si facciano avanti altrimenti sarà messa a ferro e fuoco la città!

Dalla luce che dilagava da per tutto, uscivano a centinaia uomini bruni, armati come antichi guerrieri.

Lo sbalordimento paralizzò tutti.

Ed era perché lei era disperata e piena di nostalgia, era perché non vedeva vie d’uscita, che si vestì con calma del suo costume gitano, e si avanzò fragile e assurda nel vento freddo, verso la grande luce che era fiorita nel cielo.

Tra gli uomini bruni sembrava che ci fosse incertezza: – Stupido, hai sbagliato epoca! – stava dicendo uno di loro con in testa un cimiero inciso.

– Ma no… è solo la zona… avremmo dovuto avere costumi vichinghi: è un errore trascurabile, in fondo, o magnifico…

Si accorsero di lei.

– Tu… sei una strega?… – chiese lo stupido.

Il magnifico lo scostò bruscamente, e si accostò a lei con aria cerimoniosa. Poi dopo un profondo inchino le prese la mano e la fece entrare in uno spazio che pareva arredato da un architetto pazzo: le ricordava un po’ una reggia cretese che aveva visto una volta in un polpettone storico, però c’erano anche archibugi alle pareti, e tondi scudi arabi.

– Qual è il tuo nome?

– Chiamatemi pure Strega… – sorrise lei. Poi chiese: – Perché siete venuti?

– Più tardi. – disse severo il magnifico.

La fecero sedere in una specie di trono dipinto. Una cintura di sicurezza color porpora, con incastonati rubini o qualcosa di simile, le serrò la vita. E un leggero senso di nausea le fece capire che probabilmente avevano decollato.

Poi perse i sensi.