Il cinema di fantascienza degli anni ’50 del XX secolo rappresenta un unicum particolare, fatto di nostalgia, bellezza, interesse e bianco e nero memorabili, con qualche eccezione colorata.

Film che riconciliano col cinema, con la sua funzione primeva e cioè di rappresentazione fantastica della realtà, dove sogno, passione e curiosità sono amalgamate sapientemente insieme tramite specifici archetipi narrativi.

In verità questo meccanismo non è solo del cinema di fantascienza di quegli anni, ma lo è anche di altri generi, come ad esempio i film gialli, si pensi alla serie Rai del commissario Maigret, ma nella fantascienza questi “luoghi comuni” – in senso letterale –, sono particolarmente evidenti e suggestivi e contribuiscono ad un armonioso equilibrio che sostiene l’intero arco narrativo.

Film da vedere magari in inverno, quando fa freddo e ci si rintana in casa per assaporare la consolazione del caminetto, ma fruibili in realtà in ogni stagione purché ci si sintonizzi con le frequenze del meraviglioso.

Il primo topoi di cui vogliamo parlare è quello della “cava” o della “grotta” – termini sostanzialmente interscambiabili – dove in diversi film di questa epoca si nascondevano gli alieni, soprattutto quando il loro aspetto poteva spaventare gli umani ed inoltre era un utile luogo per conservarne eventuali cloni.

Nascondendosi nella cava/caverna l’alieno si integrava a livello ctonio con il mistero e ne entrava – per così dire – a fare strutturalmente parte.

L’alieno era nascosto; il pericolo era nella profondità delle Terra.

Queste cave erano solitamente poste nel deserto di ben ordinate cittadine americane. La città urbanizzata fungeva quindi da confine tra il noto, il conosciuto, il plausibile e il mistero, il fantastico, il regno della magia.

Il deserto, che da noi non c’è, segnava per loro questo immaginario limen, questo confine non solo geografico – e quindi evidente –  ma anche psicologico o, meglio ancora, psicanalitico ed interiore perché la cava è il luogo del mistero e cioè dell’inconscio, lì dove per citare un famoso film di quegli anni, Il pianeta proibito (1956) diretto da Fred M. Wilcox, si annidano “i mostri dell’Id”, cioè di quella parte di noi non accettabile, che ha a che fare con livelli regressivi del subconscio e quindi non tollerabili per l’uomo moderno eppure presenti in tutti noi.

Il dottor Jekyll e mister Hyde di Robert Stevenson, la convivenza tra civiltà e l’inenarrabile.

Nei decenni successivi questo topos venne meno e c’è da chiedersi se tale fenomeno sia in relazione ad un cambiamento sociologico della civiltà occidentale, e degli USA in particolare.

Propongo quindi nel seguito alcuni film scelti unicamente con un criterio personale e quindi non sempre sono capolavori, ma anzi a volte b-movie divenuti poi dei veri e propri cult tra gli appassionati.

Naturalmente sia il numero limitato che i titoli non sono assolutamente significativi della produzione di un’epoca così complessa, ma solo appunto solo indicativi. Vogliono dare uno spunto iniziale che poi sarà approfondito, eventualmente, dallo spettatore.

Il primo di cui vogliamo parlare è un film inedito in Italia, ma che si trova in inglese su YouTube, con i sottotitoli in italiano.

Si tratta di Robot Monster (durata 62’) uscito nel 1953, in b/n e in 3D, prodotto negli Usa e girato -si dice- in soli quattro giorni. Il budget era di soli 16.000 $, ma ne guadagnò oltre 1 milione. La casa di produzione era la Three Dimensional Pictures Inc.. La regia è di Phil Tucker (che è anche il produttore) che allora aveva solo 25 anni.

Il film inizia in una atmosfera giocosa con una famiglia che organizza un picnic e un bambino vestito da astronauta che con la sorellina si avvicina ad una grotta, dove ci sono due archeologi intenti nel loro lavoro. Ritrovati dalla madre e dalla sorella più grande si addormentano, come promesso, dopo il pranzo. Al risveglio Johnny torna alla grotta e vede il mostro/robot. Sembra un gioco, ma la storia si rivela (forse) vera.

Un gigantesco scimmione scafandrato che è un robot chiamato Ro-Man Extension XJ2 è munito di un raggio distruttivo, il calcinator o raggio c, con cui ha ridotto in macerie la Terra. Tutti gli umani sono stati eliminati tranne che la famiglia ed altri pochi sopravvissuti, per un totale di otto persone che grazie ad un siero inventato da un professore resistono alle conseguenze del raggio.

La famiglia è composta, appunto, dal professore, sua moglie le loro due figlie, Alice e Carla, un terzo figlio, Johnny, l’assistente del professore, Roy, e due piloti spaziali Jason e McCloud, che comunque non compaiono mai.

I suoi mandanti sono i Ro-Man, coordinati dalla Grande Guida, che sono gli abitanti della Luna che hanno voluto annientare i terrestri considerandoli una minaccia a causa dello sviluppo della tecnologia atomica e spaziale, propria di quegli anni. Ro – Man Extension, vista l’inutilità del raggio con loro, decide di uccidere fisicamente diversi sopravvissuti, ma non riesce a uccidere Alice, e se ne innamora. A questo punto i suoi padroni lo eliminano perché non ha ottemperato agli ordini.

La Grande Guida in persona giunge sulla terra per completare l’opera usando un altro raggio distruttivo, il Raggio q, che causa la comparsa di rettili preistorici.

Il finale ha un colpo di scena: il bambino era ruzzolato davanti all’entrata della cava ed era svenuto. Viene ritrovato dai due archeologi che sono il professore e l’assistente e si fa intendere che sia stato un sogno. Tuttavia il finale mostra ancora la grotta da cui esce il robot, lasciando aperta la possibilità che invece sia tutto vero.

Una trama avvincente che viene giocata molto sui “nascondigli”, sia quello degli umani che quello dell’alieno – robot che appunto è sito in una grotta nel deserto.

Il nascondiglio umano è un luogo che rilassa, dà sicurezza, perché è protetto elettronicamente dalle onde aliene che cercano di avvilupparlo.

In questo fotogramma viene mostrato l’alieno – robot all’ingresso della grotta.
In questo fotogramma viene mostrato l’alieno – robot all’ingresso della grotta.

Un film molto più famoso in cui compare questo stereotipo è Gli Invasori spaziali (Invaders from Mars), sempre del 1953 (durata 72’ negli Usa e 82’ in UK e UE) e per la regia di W.C. Menzies, premio Oscar per gli allestimenti degli ambienti di Via col vento (1939). La casa di produzione è la National Pictures Corp., USA.

Un ragazzino, David Maclean, una notte di tempesta, vede atterrare una astronave dietro una collina vicino alla sua casa di campagna ed avverte i genitori George e Mary che non gli credono. Ma poco dopo si accorge che la gente viene assorbita da sabbie mobili azionate dagli alieni che risucchiano giù le persone e li controllano tramite un circuito impiantato.

David avverte la psicologa della scuola, Pat Blake, che si convince della verità del racconto. Un po’ alla volta, grazie anche ad uno scienziato, Stuart Kelson, riescono a convincere i militari e la zona viene recintata.

Nel finale compare il capo marziano, senza corpo, che ha degli “schiavi” umanoidi che lo servono. Gli alieni vogliono distruggere un razzo spaziale terrestre perché gli sviluppi della missilistica li sta mettendo in pericolo e così fanno saltare in aria il laboratorio che progettava un motore atomico.

Gli umani riescono alla fine a piazzare una carica esplosiva all’interno della nave spaziale che quando decolla esplode.

Il film presenta – come detto – due finali e diverse versioni in b/n e a colori.

In quello inglese finisce tutto con l’esplosione, mentre in quello Usa il ragazzino e la famiglia ritornano a casa. David si sveglia e pensa sia stato un incubo, ma poi alla fine si rivede l’atterraggio e quindi resta il dubbio se sia fantasia o realtà.

L’opera, principalmente a colori e 3D, è uscita solo pochi mesi prima di Robot Monster ed è a questo accumunato dal finale in cui non si capisce se l’avventura vissuta dai protagonisti sia stata reale oppure no.

Gli alieni hanno una base sotterranea – cioè di nuovo una caverna – che è pero sormontata da una cava ricoperta con sabbie mobili che trascinano letteralmente giù i malcapitati per essere poi clonati.

Molto iconici i mulinelli di sabbia che accompagnano la sparizione dei protagonisti.

Suggestivo – soprattutto durante il temporale – è il sentiero di campagna che conduce dalla casa della famiglia alla cava/grotta. Un quadro idilliaco che però, anche in questo caso, nasconde il mistero.

Il sentiero è limitato da uno steccato di legno che separa il noto dal non noto.

Anche qui il “perturbante”, il mostro, l’alieno, il desueto, l’arcano, è celato nel sottosuolo e – proseguendo l’analogia – nei recessi del subconscio sia collettivo che individuale ed è connesso con il Reale tramite la superficie di separazione costituita dalla sabbia, mentre i mulinelli sono il meccanismo di soglia che accompagna verso il mondo nascosto.

Da notare che la vicenda dei cloni sarà poi ripresa con grande successo ne L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers) del 1956 e diretto da Don Siegel.

Nel 1986 ne è stato fatto un remake avvincente con lo stesso titolo dal regista Tobe Hoper.

Un altro esempio delle tematiche che stiamo trattando è in Destinazione…Terra! (It came…from outer space) del 1953 (durata 81’), sempre in b/n e prodotto dalla Universal, Usa, da un soggetto del famoso scrittore Ray Bradbury.

Una “meteora” si schianta in una miniera chiamata Excelsior nel deserto dell’Arizona, vicino ad una città, Sand Rock, dove risiede un astronomo dilettante, John Putnam e la sua fidanzata Ellen Fields. I due il giorno dopo si fanno accompagnare in un singolare elicottero aperto da un amico e John scopre che si tratta di una astronave aliena dalle strutture esagonali.

Quando gli alieni lo vedono richiudono il portello provocando una valanga che ricopre la struttura.

Nel frattempo alcuni abitanti paiono strani e si scopre che sono stati clonati dagli alieni, anche Ellen è tra questi. Gli extraterrestri hanno in realtà avuto un’avaria e trattano con John per la ripartenza dopo aver riparato la nave spaziale.

È uno dei primi film in cui l’alieno non è ostile, ma è solo bisognoso di collaborazione inaugurando una certa sensibilità “politica” in anni di maccartismo.

La regia è firmata dal grande Jack Arnold, scritturato dalla Universal, la casa cinematografica specializzata in mostri, peraltro al suo primo film di fantascienza, un vero mito del cinema degli anni ’50 che in accoppiata con l’altrettanto famoso Ray Bradbury produce un’opera d’eccezione.

Presente l’usuale e sfruttato tema dei cloni e anche in questo caso gli alieni si rifugiano nella miniera ubicato nel deserto sullo sfondo della deliziosa cittadina americana.

Nel film il tema del “deserto” e del suo mistero è trattato chiaramente ed assume addirittura accenti lirici supportato dai suoni elettronici tipici di quegli anni.

Questo è il film in cui appare più evidente lo stereotipo di cui ci occupiamo: cava/grotta/deserto/cittadina più la coppia di fidanzati circondata da una corte di miscredenti e naturalmente una grande moltitudine di militari.

Ne La guerra tra i pianeti (Killers from Space) b/n del 1954 durata (71’) diretto da W. Lee Wilder (fratello del famoso Billy Wilder)

Doug Martin è uno scienziato nucleare impegnato in un esperimento segreto che mentre osserva da un aereo militare in ricognizione una esplosione atomica vede splendere un riflesso luminoso nel deserto.

L’aereo si avvicina, ma i comandi si bloccano e precipita, tuttavia Martin ne esce stranamente incolume, solo con pochi acciacchi, tra cui una cicatrice, ma non ricorda nulla.

La polizia federale sospetta che sia un impostore, ma le impronte digitali lo scagionano. È proprio lui. Mentre dorme con la moglie vede due occhi che lo fissano a mezz’aria. Pensa di avere delle allucinazioni. I test nucleari continuano senza di lui.

Martin ruba i risultati dei test per consegnarli nel deserto agli alieni, provenienti dal pianeta Astron delta, ma viene bloccato dalla Fbi. Interrogato dai militari col siero della verità gli ritorna in mente tutto. Gli alieni che hanno stranissimi occhi a palla di ping pong vogliono conquistare la Terra con un esercito di insetti giganti e utilizzano ingenti quantità di energia elettrica.

Uno scienziato extraterrestre, nella caverna dove si nascondono, gli racconta che cosa fanno e cioè accumulano tutta l’energia liberata nella fissione nucleare e il riflesso visto dall’aereo era dovuto al rilascio di energia immagazzinata.

Il loro sole si spense e i loro occhi si svilupparono abnormemente per catturare più luce possibile. Da allora si spostano da pianeta a pianeta per avere la luce dei soli e per questo puntano la Terra.

Dopo aver utilizzato gli insetti li distruggeranno con i raggi gamma. Martin riesce a sconfiggerli provocando un sovraccarico di energia elettrica che utilizzano per controllare quella nucleare che li distrugge.

Anche in questo caso gli extraterrestri pongono la loro base operativa nel deserto, in un luogo sotterraneo in una cava che viene nel finale distrutta dal sovraccarico energetico.

Film dal patos forse minore degli altri si rivaluta però per le scene finali fermo restando il fascino della solita grotta.

Molta suggestiva la scena finale nella centrale elettrica che può ricordare Metropolis di Fritz Lang (1927).

In Italia fu distribuito solo nel 1957. La casa di produzione è la W. Lee Wilder Productions, Usa.

Conclusioni

Il tema della “grotta nel deserto” – come detto – non si esaurisce certo con questi film proposti, ma si tratta solo di uno spunto su un tema originale non trattato in maniera specifica o particolareggiata.

Molti film si basano su di esso e la determinazione dei registi e dei soggettisti a riproporlo è la dimostrazione che si trattava di un canovaccio ben consolidato che sicuramente riflette elementi sociologici degli Usa di quegli anni.

Il tema è affascinante perché la cava e la grotta sono elementi topografici del terreno molto comuni nel mondo e chiunque li può ritrovare in città o appena fuori. E forse è proprio questo elemento -e cioè la reperibilità sul territorio- a fare di essi un topos suggestivo.

Parimenti anche il deserto è un elemento misterioso e affascinante.

L’”alieno nella grotta” e cioè nell’inconscio è dunque facilmente accessibile e quindi plausibile, rispetto a situazioni più complesse e immaginifiche.