Prologo 

Aveva appena quattro anni l'estate in cui il suo papà era partito con tre navi, promettendo gloria imperitura per sé e regali magnifici per lui. Ne aspettava il ritorno da tanto, tantissimo tempo, nemmeno ricordava più da quanto. Nel frattempo il nuovo anno era già inoltrato, eppure la prima azione che compiva ogni mattina, appena alzato, era chiedere se il padre era tornato. E ogni volta sua madre Beatrice scuoteva la testa e rispondeva che non c'erano notizie.

Il bambino guardava allora a lungo, immalinconito, verso l'orizzonte, in direzione del mare lontano, come se avesse potuto vederlo apparire direttamente da lì, e tra sé diceva, caparbio:

– Domani, arriverà domani.

Ma i mesi scorrevano e già il piccolo aveva compiuto i sei anni e ancora aspettava e chiedeva, invano.

Una nuova estate volgeva ormai al termine, quando un giorno, pronunciata come sempre la fatidica domanda e ottenutane l'abituale, sconsolata risposta, all'improvviso capì che non sarebbe più tornato. L'impresa doveva essere fallita. Il suo adorato papà era morto.

Così lui non lo nominò mai più.

Capitolo 1 

Il primo giugno dell'anno del Signore 1522 albeggiava mentre alcuni pescatori ritiravano le reti dopo una dura nottata di lavoro. La costa portoghese era talmente distante da sembrare un'indefinita linea uniforme. La fortuna aveva arriso loro, perché avevano fatto una pesca molto abbondante.

Stanco ma felice, lo snello, bronzeo e riccioluto quattordicenne Raimundo de Sousa si sentiva molto soddisfatto del magnifico risultato conseguito proprio alla sua prima partecipazione. Aveva quasi l'impressione che fosse stato tutto merito suo e gli pareva di buon auspicio per il futuro. Finalmente avrebbe dato un sostanziale contributo al bilancio familiare e i suoi genitori sarebbero stati orgogliosi di lui.

I pescatori si apprestavano a manovrare per tornare a riva, quando Raimundo, che grazie forse alla giovane età era quello dotato della vista migliore, notò qualcosa di appena percettibile in lontananza, a ponente.

– Guardate laggiù compagni, guardate –. Esclamò spaventato, dopo qualche istante d'intensa osservazione.

Gli altri quattro volsero all'unisono lo sguardo verso il largo e rimasero a lungo a fissare, immobili e silenziosi, la confusa, enigmatica visione, che andava ingrandendosi di minuto in minuto.

– Si estende da sud a nord come un'immensa onda compatta ma è mutevole, non mi sembra un'onda. Cosa sarà? – Chiese infine, più a se stesso che agli altri, l'anziano della squadra.

– Sono imbarcazioni. Devono essere parecchie centinaia – comprese allora Raimundo.

Sconvolti, i cinque presero a parlare tutti insieme:

– O nostro Signore onnipotente aiutaci, riempono l'orizzonte, è un'invasione.

– Saranno i mori, un attacco degli infedeli.

– È una quantità enorme, un'immensa muraglia di navi, addirittura migliaia, di più, migliaia di migliaia.

– Ma è impossibile.

– Non distinguo ancora bene, eppure… assomigliano a nostre caravelle.

– Torniamo subito a Sesimbra, dobbiamo dare l'allarme – ordinò infine il capo.

– Per quel che serve, non c'è difesa contro una simile orda.

La flotta, approdata in Portogallo dopo avere annientato la forza navale nemica e aver facilmente resistito ai cannoneggiamenti da terra, aveva sbarcato un immenso esercito. Il nuovo sovrano Giovanni III, un ventenne pacifico per natura, quel mattino si trovava all'estrema periferia della capitale. Partecipava alla messa per l'anniversario dell'inaugurazione del monastero dos Jeronimos, l'imponente e spettacolare edificio in stile gotico fiammeggiante fatto realizzare da suo padre, Manuel I, grazie alle ricchezze portate da Vasco da Gama al termine delle sue spedizioni in oriente. Intempestivamente informato, quando il monarca era rientrato nel palazzo reale era già troppo tardi. La flotta nemica – navigli sui venti trenta metri di lunghezza abbastanza simili a quelli in uso in Europa – stava approdando e già i primi contingenti scendevano a terra.

Preso dal panico, Giovanni si era affrettato ad abbandonare la corte insieme a familiari, a dignitari e a una piccola scorta armata. Ma prima ancora di lasciarsi alle spalle Lisbona, ancora visibile in lontananza, era stato assalito da truppe provenienti dal sud, armate per lo più di asce, zagaglie, mazze dalla cima a stella e frombole. Nel breve combattimento successivo metà del suo seguito rimase ucciso, dopodiché egli stesso fu ferito e catturato.

Questi guerrieri dalle esotiche e deformi fisionomie erano ben disciplinati ma rivestiti con abiti dai vivaci disegni geometrici multicolore, strane armature leggere e ancor più strani copricapi ed elmi lignei. Parlavano inoltre una lingua ignota. Non potevano essere mori, il sovrano lusitano conosceva troppo bene la realtà islamica per fare confusione.

Chi altri avrebbe potuto schierare forze così imponenti? L'esercito invasore doveva provenire, pensava, dalle per lo più ancora sconosciute terre del Catai. Il suo aspetto gli pareva ricalcare, infatti, la descrizione delle genti di quelle lontane contrade. Era stato un errore inviare esploratori nel lontano oriente. I portoghesi avevano sperato di aprire nuove vie al commercio, invece avevano attirato attenzioni indesiderate. L'impero cinese della dinastia Ming doveva essere venuto a conoscere il percorso seguito da Vasco da Gama per raggiungere le Indie e aveva deciso di far circumnavigare a propria volta il continente africano allo scopo di conquistare l'Europa.

E mentre il governo centrale cadeva e gli eserciti nemici marciavano nell'entroterra, preceduti dai mercanti spia, un po' alla volta ogni opposizione veniva stroncata. A circa un mese di distanza dal primo avvistamento, in tutto il regno resistevano soltanto, all'estremo nord, le munite fortezze di Guimaraes e di Braganza.

Nel frattempo un'armata navale altrettanto numerosa occupava l'Irlanda, per poi dirigere le prue verso la Gran Bretagna, circondare l'isola e giungere perfino a saccheggiare Londra. Decine di migliaia di abitanti della città rimasero uccisi e quasi tutti gli altri dovettero fuggire nelle campagne, mentre si raccontavano spaventose storie di presunti atti di cannibalismo degli invasori nei confronti degli autoctoni. Ben presto un munito blocco navale separò il regno inglese dal resto del mondo mentre lo stesso re Enrico VIII riparava precipitosamente nell'interno del paese. Intanto la popolazione opponeva una disperata quanto vana resistenza: una alla volta le difese crollavano e le isole britanniche subivano nella loro interezza terribili devastazioni.

In quegli stessi giorni Carlo V, l'uomo più potente del mondo occidentale, che da tre anni riuniva sotto di sé la monarchia spagnola, il dominio di Fiandre e Paesi Bassi e la titolarità del Sacro Romano Impero, organizzava la reazione. Nel corso dei primi, occasionali, contatti diplomatici, gli invasori avevano indicato se stessi come “duplice alleanza imperiale”, così per lo meno suonava la traduzione. Non avevano fornito ulteriori informazioni né su se stessi né sulle loro motivazioni, ma quella definizione e il loro ingente numero fecero capire all'imperatore che non doveva vedersela col solo Catai. Prima di lanciare l'attacco, il sovrano cinese doveva essersi accordato con un'altra casa regnante, con ogni probabilità quella dell'arcipelago che sorgeva ancor più a oriente, le misteriose isole del Cipango o Giappone.

Mentre già avanguardie nemiche apparivano dinanzi a La Coruña a nord e a Cadice a sud, l'imperatore Carlo V fece schierare la flotta spagnola a protezione dello stretto di Gibilterra e inviò le forze di stanza nei Paesi Bassi, al comando di Hernan Cortes, in soccorso alle isole britanniche. La prima battaglia navale avvenne al largo di Ramsgate, dove i difensori, che conoscevano meglio i luoghi e le correnti e, contrariamente al nemico, disponevano di potenti cannoni, manovrando con maggior perizia uscirono vincitori nonostante forze inferiori.

Intanto, truppe di terra marciarono a tappe forzate verso il confine portoghese fino a scontrarsi con i primi contingenti avversari, ricacciandoli indietro e infliggendogli dure perdite grazie alle cariche della cavalleria, di cui gli assalitori erano privi, e alla maggior robustezza delle loro corazze. Giunta però a contatto con i corpi d'armata principali, la cavalleria austro-ispanica fu assalita da milizie scelte di lancieri soprannominate gli “Arcani”, che abbattevano i destrieri rendendo i risultati dei combattimenti molto più favorevoli agli invasori.

Benché fossero politeisti idolatri e i cristiani si riunissero in preghiera e portassero statue di santi e madonne in processione, presto gli orientali ricevettero un aiuto impensato. L'estate, infatti, era finita e l'autunno incombente già portava con se i primi freddi, quando giunsero ferali notizie: il re cattolico francese Francesco I, preoccupato per l'accerchiamento causato dall'unione delle corone spagnole, olandesi e germaniche su un'unica testa, si era alleato con le forze provenienti dal Catai e dal Cipango, sbilanciando così, a vantaggio degli aggressori, le forze marinare grazie ai propri moderni armamenti. Nel frattempo un suo esercito aveva varcato i Pirenei e occupava le provincie basche, acclamato dalle popolazioni autoctone, ribelli al governo spagnolo. Per giunta anche l'impero Ottomano, preoccupato dell'evolversi degli eventi, stava entrando in fibrillazione. Ormai era guerra totale.

E i conquistatori stavano vincendo, penetrando lentamente ma inesorabilmente sia nel territorio castigliano sia nel primo entroterra belga, dopo aver occupato il porto di Anversa.

Capitolo 2

Dopo essere fuggito dal Portogallo, il giovane Raimundo de Sousa si era arruolato nella flotta spagnola come mozzo e prestava servizio sul El intrépido, un ben equipaggiato galeone appena varato. Essendo ritenuto il primo al mondo ad aver avvistato il nemico, tra i marinai della sua squadra navale era famoso, ma era una notorietà di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Doveva ancora compiere i sedici anni, eppure si sentiva come se da quel giorno fosse passato un intero decennio, tanto si sentiva cambiato. All'epoca voleva con tutte le forze essere un uomo, mentre in fondo al cuore si sentiva ancora un ragazzo, ora invece sentiva di essere davvero diventato uomo, mentre avrebbe preferito essere ancora un ragazzino innocente. Tant'è che nei sette mesi trascorsi da allora aveva partecipato a sanguinosi combattimenti, uccidendo e rischiando di essere ucciso, in una drammatica alternanza di successi e di rovesci.

Il loro era un insolito nemico, generoso nei confronti di chi si sottometteva al punto da rispettarne perfino il credo religioso, ma così crudele e spietato con chi non si arrendeva da massacrare intere popolazioni, donne, vecchi e bambini compresi. Nelle località già sottomesse, sovente bastava anche un semplice accenno di rivolta perché i conquistatori ordinassero lo sterminio degli abitanti oppure deportazioni forzate in regioni lontane.

Il mattino di capodanno del 1523 la sua formazione giunse a vele spiegate in vista di quattro navi nemiche all'ancora in una piccola rada non lungi da Dunkerque, nelle Fiandre. Stranamente la lasciavano avvicinare senza reagire e a bordo non si scorgevano movimenti nemmeno puntandovi i cannocchiali. Che fosse una trappola? Il comandante della squadra decise di fermarsi in attesa a distanza di sicurezza e d'inviare L'intrepido in avanscoperta.

Il capitano di quest'ultimo ordinò a un gruppo di sei marinai, tra cui Raimundo, di accostare con una scialuppa una delle navi straniere e di salire a bordo per scoprire cosa stesse accadendo. L'operazione si svolse senza incidenti, ma da bordo giungeva un anomalo rumoreggiare. Infine agli occhi del giovane mozzo si aprì uno spettacolo sconcertante. Sul ponte inferiore non si vedeva nessuno, mentre alcuni barilotti rotolavano avanti e indietro, spinti dal moto ondoso. Il naviglio pareva abbandonato.

– Che mistero è questo? Come mai non c'è un'anima? – si domandò Raimundo.

– Ci deve essere qualche sortilegio in atto, Mundiño. Scappiamo prima di scomparire pure noi – rispose un compagno.

– Non dire sciocchezze, marinaio – si arrabbiò allora il sottufficiale al comando, – sei così vile? Dividiamoci in due gruppi, uno esplorerà di là fin sul cassero, l'altro scenderà in coperta.

Dopo aver percorso il ponte a passi prudenti insieme a due compagni, Raimundo giunse sulla tolda, vi salì adagio e scorse due cadaveri. Il terzetto si accostò preoccupato, stando bene attento a non avvicinarsi troppo. Non si scorgevano ferite, tuttavia i corpi apparivano emaciati e ricoperti di macchie, come se fossero caduti preda di una malattia. Il mozzo si guardò intorno dall'alto. Il ponte sottostante era deserto, che fine avevano fatto tutti gli altri?

In quel momento dabbasso si udì un vociare concitato.

– Dio mio, cosa succede qui?

– Lo dicevo io che c'era un sortilegio.

Poco dopo gli altri tre marinai iberici saliti a bordo fuoriuscirono terrorizzati. In coperta avevano trovato quanto restava dell'equipaggio: sei uomini accasciati che si lamentavano fievolmente, in apparenza troppo deboli per reagire all'irruzione, mentre, come scoprirono in seguito, un settimo, l'unico ancora in buona salute fisica ma in grave stato di choc, se ne stava nascosto, tremante, in un angolo riposto della stiva. A parte costoro c'era soltanto una dozzina di cadaveri. Un tremendo puzzo di morte imperversava in tutti gli ambienti chiusi.

In una cella trovarono alcuni prigionieri portoghesi, stremati dalla sete ma altrimenti in buona salute. Sulle altre tre navi la situazione era analoga. Una o più pandemie avevano imperversato a bordo, decimando gli equipaggi. A quanto pareva i primi a morire erano stati gettati fuoribordo dagli spaventati colleghi. Ciò non era tuttavia servito a debellare i malanni e gli ultimi superstiti, ormai troppo deboli per sbarazzarsi dei cadaveri, li avevano lasciati marcire a bordo, andandosi a rintanare il più lontano possibile. Sui quattro bastimenti, inizialmente occupati da un totale di almeno duecento uomini, erano rimaste appena quindici persone sane e ventotto inferme, queste ultime destinate in maggioranza a perire a propria volta.

Quando il mese di gennaio ebbe termine, il trionfo dell'Europa era ormai certo. I nemici morivano ovunque a causa di innumerevoli malattie, perfino semplici raffreddori. In mare, la flotta unita del Catai e del Cipango era allo sbando, mentre a terra gli invincibili Arcani, le truppe scelte di lancieri, avevano oramai ranghi troppo ridotti per opporsi alla cavalleria ispanica, che chilometro dopo chilometro ricacciava gli invasori verso l'oceano. E ovunque si levavano odi al Signore e si tenevano messe di ringraziamento, perché quelle stragi, dovute perfino ad affezioni innocue, parevano troppo assurde per essere naturali: Dio aveva ascoltato le preghiere dei fedeli, annientando i feroci miscredenti.

Peraltro i suddetti miscredenti non provenivano dall'estremo oriente come tutti fino ad allora avevano creduto. Inoltre, i lancieri non prendevano il proprio nome da arcani poteri che li rendessero invincibili. Si trattava soltanto di un'incomprensione. In realtà gli europei avevano udito il nome della popolazione che ne formava le forze principali: gli Araucani.

Oramai la verità era nota grazie a due italiani, il vicentino Antonio Pigafetta e il savonese Leon Pancaldo, liberati dagli spagnoli a metà gennaio del 1523, tre anni dopo essere stati presi prigionieri mentre, viaggiando alla ricerca della via delle Indie agli ordini di Ferdinando Magellano, costeggiavano una terra ignota. Costoro erano gli unici superstiti dell'originario equipaggio di esploratori.

Gli invasori, raccontò la coppia, provenivano proprio da quella terra ignota al di là dell'oceano Atlantico. Due potenti stati espansionisti, l'impero inca e l'impero azteco, si erano alleati dopo aver soggiogato tutte le popolazioni circostanti.

Gli Inca e gli Aztechi erano guerrieri forti ma apparentemente cagionevoli di salute, precisò Pigafetta, perché non pochi dei loro primi catturatori erano morti subito dopo averli incontrati, tanto che gli altri, considerandoli maledetti, avevano deciso di tenerli in isolamento e non li avevano soppressi solo perché avevano bisogno delle loro conoscenze.

Magellano si era orgogliosamente illuso di essere giunto per primo in quelle lande, tanto più che i nativi incontrati nelle isole su cui era approdato fino a quel momento sembravano ignorare l'esistenza degli uomini bianchi, ma dopo una breve quanto cruenta battaglia aveva pagato con la vita, insieme a gran parte dei suoi marinai, l'errata presunzione. Dei pochi sopravvissuti, la maggior parte era stata sacrificata per propiziarsi le divinità locali, mentre i due italiani e due spagnoli, nel frattempo defunti, erano stati schiavizzati e costretti a fungere da informatori.

– Ma noi non siamo responsabili dell'invasione – giurò in proposito l'abbacchiato Leon Pancaldo – quando li abbiamo incontrati sapevano già con chi avevano a che fare e si preparavano ad attraversare l'Atlantico per una spedizione di conquista.

Epilogo primo: luglio 1523 

Intorno allo zenit, un contadino sedeva all'ombra di un olmo solitario mangiando un panino imbottito. Aveva trascorso la mattinata lavorando la terra e prevedeva molte altre ore di fatica dinanzi a sé. Non viveva in campi molto fertili, perciò riusciva ad offrire a sé e alla famiglia solo la pura sussistenza. Stava appunto meditando su quanto triste fosse l'esistenza, quando uno scalpiccio ne destò l'attenzione. Voltatosi, vide giungere la figlia maggiore, una ragazzina decenne, in compagnia di un riccioluto sconosciuto sui sedici anni.

– Eccolo, è lui – sentì esclamare giovialmente alla bambina, che lo stava indicando all'estraneo.

– Messer Colombo, messer Fernando Colombo – chiamò quest'ultimo, sorridendo.

– Non chiamarmi Colombo, ragazzo, non ho adottato quel cognome, perché ero solo un figlio naturale di mio padre Cristoforo. Ma chi sei tu? Cosa vuoi? – rispose il contadino, alzandosi in piedi, perplesso.

– Mi chiamo Raimundo de Sousa. Combattei contro gli invasori. Sul cadavere di uno dei guerrieri Aztechi al comando della spedizione trovammo questo medaglione. Non mi è stato facile rintracciarvi, ma il mio comandante teneva a farvelo avere.

Fernando prese l'oggetto che il giovane gli tendeva. Lo squadrò da ogni parte e infine lo aprì, con le lacrime agli occhi. Al suo interno vi si leggeva un'iscrizione. Aveva appena quattro anni quando suo padre, Cristoforo Colombo, era partito con tre caravelle, in cerca di gloria, per non fare più ritorno, mentre ora ne aveva ben trentacinque, eppure l'aveva immediatamente riconosciuto. D'altronde l'iscrizione interna riportava anche il suo nome.

Dunque, meditò, non era naufragato durante il viaggio sulla via delle Indie, perendo in fondo al mare, come aveva sempre supposto. Se doveva dar credito alle storie che si raccontavano, aveva incontrato un ostacolo sul suo cammino: un intero continente ignoto. Perciò la sua destinazione doveva essere stata sbagliata. Ma perché, una volta scoperto l'errore, non era più tornato a casa? Era stato forse catturato dagli indigeni?

Sì, intuì Fernando, doveva essere stato catturato e fatto schiavo, ben trent'anni prima, dai futuri invasori, quei misteriosi abitanti del nuovo mondo, appena annientati dalle malattie. E in quel momento una terrificante comprensione lo fulminò: era stato suo padre ad attirare sull'Europa gli invasori.

Epilogo secondo: febbraio 2020 

Susi attraversa il soggiorno e adocchia il libro che tengo in mano stravaccato in poltrona.

– Cosa leggi Massimo? – Mi chiede nel dialetto italiano da lei parlato abitualmente.

– Sto rileggendo un grande classico della letteratura del '700, I viaggi di Cristoforo Colombo di Jonathan Swift. Lo conosci?

– Mm, forse avevo visto il film, ma non ricordo la trama.

– È una satira tra il fantastico e la storia alternativa ispirata al personaggio del titolo, un esploratore quattrocentesco poco noto ma realmente esistito. Swift immagina che sia stato lui a scoprire l'Aztechia durante una serie di viaggi mirabolanti in terre abitate da gente strana. Perciò nel suo romanzo si chiama Cristofora e in effetti alcuni studiosi ritengono che potrebbe davvero averla scoperta lui, solo che è morto prima di poter tornare in Europa a comunicare la notizia.

– Oh, ma basta là, è quel film con gli esserini minuscoli, i lillipuziani, ora ricordo. La storia era così così: con tutte quelle assurdità è troppo lontana dal mio genere. A te invece piace, vero?

– Sì, è bella. Sono arrivato quasi alla fine, quando Colombo, divenuto ormai vecchio dopo l'ultimo viaggio, quello nel paese dei cavalli sapienti, decide di unirsi a Hernan Cortes, sai, il famoso ammiraglio di Carlo V morto nella battaglia navale d'Anversa durante la “Guerra dei tre imperi” che però, grazie ai viaggi di Colombo che l'han preceduta, in questo romanzo non è mai avvenuta…

– Quante complicazioni.

– Meno di quel che sembra dovendolo spiegare. Comunque Colombo si unisce a Cortes, dicevo, per lanciarsi alla conquista dell'impero Azteco, proprio come nella realtà ha poi fatto Pizarro con gli Aztechi e gli Inca.

– E chissà oggi come sarebbe il mondo, se fosse andata davvero così, senza l'invasione dell'Europa.

– Beh, il capitolo finale è ambientato all'epoca di Swift: l'autore immagina il continente aztechiano diviso tra spagnoli, portoghesi e a nord perfino inglesi, che dominano mezzo mondo perché, non essendo stati indeboliti dalla guerra, non sono stati attaccati e conquistati da Carlo V nel 1535-1537 con la scusa della ribellione alla Chiesa. L'impero britannico, lo chiama. Per fortuna non è andata come racconta lui, altrimenti oggi il mondo occidentale non sarebbe unito sotto la lingua e la cultura ispanica e sotto la religione cattolica. Anche se a essere sinceri dubito che le azioni di un singolo uomo possano cambiare a tal punto la storia.