Nel sentore greve di alghe di quella grigia giornata d'inverno, nel silenzio di quella spiaggia che aveva solo il rumore ovattato delle onde sui ciottoli, in quella giornata che aveva già tutti i sintomi della sconfitta, le nostre parole suonavano false e inutili. Suonavano per quello che erano: un pietoso tentativo di allontanare un evento già concluso. Era lui invece che avrebbe potuto chiederci dov'eravamo noi quando si erano schiuse le porte dell'aurora, e con quale diritto contestavamo le sue decisioni, ma ci rispose con dolcezza chinando ancora di più il suo grande corpo verso di noi:

- L'unico che resta dei miei è il Sommerso. Vive in un'isola lontano da qui, a Est, nel Grande Oceano, ma la sua dimora è un isolotto spoglio e roccioso, come una lancia spuntata in mezzo al mare che a nessuno interessa e che nessuno degna di più di una sguardo. E' una bestia compatta come una sfera che emette altissime urla, e queste urla non si sa da dove escano. Per sei mesi dimora nel mare, gli altri sei abita quell'isola. Neppure io so cosa sia, né qual è il suo cibo né come lo mangi. Gli animali che approdano alla sua isola cadono pietrificati e la forza delle onde li demolisce e li sgretola poco a poco. Il Sommerso vive, vive da sempre, e siamo fortunati perché, dicono, le sue urla sorreggono i pilastri del cielo.

Cominciavo ad intravvedere la scia di creature perdute sfilare alle spalle di Re'em, nel mare grigio che si velava di una nebbia chiara e pungente. Nella bruma galoppavano i cavalli marini dalla coda di serpente cari a Nettuno, i Kelpies degli irlandesi, i corpi scagliosi dei serpenti di mare, tritoni e affascinanti sirene, i demoni marini dei bestiari con balene diavolo e zifi mostruosi che divoravano foche e naviganti... e il Sommerso che con le sua urla laceranti sosteneva il cielo ma non poteva parlare con nessuno.

Il grande corpo di Re'em si alzava e abbassava al ritmo di un respiro sempre più difficile. Il capo scheletrito da pesce si era ulteriormante chinato, fino a poggiarsi sui ciottoli umidi bagnati dalle onde, l'odore delle alghe morte era stato spazzato via come da un profumo di oceano pulito.

Re'em moriva. Gli occhi non avevano palpebre e anche i dotti lacrimali erano aboliti. I grandi dischi scuri si appannavano lentamente e si coprivano del grigio nebbioso che impregnava l'aria. Non c'era dolcezza in quell'aria fredda che sembrava pesare sul titano morente, un sentore tragico e disperato lo avvolgeva. Un'altra porta si stava chiudendo per sempre.

La mia amica lo scrutava con volto ormai senza espressione, solo un tremito delle labbra che la luce bassa faceva apparire scure e dolenti. Seduta su un grosso sasso levigato dal mare, a pochi metri da lui, i capelli neri le ricadevano sulla fronte imperlati delle minuscole gocce della nebbia, le braccia avvolte sul corpo come avesse freddo. O forse era come me, disperata. Nel pallore, la sua figura un po' si fondeva con l'abbandono di Re'em. Era piegata in avanti, tesa, quasi volesse raggiungerlo e toccarlo un'ultima volta. Io ero seduto accanto a lei, immobile di fronte alla determinazione della incredibile creatura.

Il giorno era già avanzato verso un pomeriggio triste. Da oltre un'ora non c'eravamo più parlati, immobili a osservare la sua fine; Re'em aveva quasi cessato di respirare, la bocca aperta, il corpo sempre più appiattito sui sassi. Un po' di vento muoveva la nebbia quando lo vedemmo sollevare appena il capo da pesce impossibile e alzare lentamente una delle sue grandi braccia verso di noi, la mano palmata aperta.

Forse solo lei capì il gesto, si alzò sicura e la prese, la strinse a sé, vi posò la guancia e la coprì di pianto.

Rimasero in quella posizione per qualche minuto. Quando abbandonò la grande mano, essa ricadde sui sassi bagnati senza più alcun segno di vita.

- Lasciamolo qui. E' un luogo solitario che ha molto amato. Le tempeste dell'inverno se lo riprenderanno - disse Letizia. - Andiamo via.

Lontano nella nebbia mi sembrò udire un verso acuto e dolente di delfini.