1. Stazione spaziale di Cerere

Il maggiore Tom Webster camminò sulla neve gelata fino al bocchettone, si inginocchiò. Era notte e le stelle brillavano a grappoli e il sole sarebbe sorto da lì a poco: sarebbe stato un sole piccolo e fulgido che avrebbe illuminato quelle montagne un poco di più di quanto facesse la Luna piena sulla Terra.

Il maggiore armeggiò, prese il riscaldatore dalla tasca della tuta spaziale ed eliminò le incrostazioni di ghiaccio dal bocchettone, poi lo aprì. Era un guasto banale, ne era sicuro, ma dall’interno della base non era possibile ripararlo. Tutti pensavano sempre e soltanto a problemi di software e diventavano matti a cercare soluzioni. Ma quando un bullone si allentava o un diaframma di composito si incrinava, non c’era software abbastanza efficace. Il maggiore ingegnere Tom Webster scosse la testa. Lo ritenevano un genio delle riparazioni, un meccanico imperdibile, soltanto perché a lui piaceva sporcarsi le mani. Estrasse il bocchettone, inserì la funzione ingrandente del visore, poi esaminò la valvola a sfera e il nebulizzatore. Non aveva molto tempo perché entro due ore sarebbero arrivati i turisti che volevano provare l’ebbrezza di sciare su Cerere, in una gravità pari a un ventesimo di quella terrestre, leggeri come piume. Se sulla Terra eri ottanta chili, su Cerere ne pesavi quattro. Un sogno per obesi.

Il maggiore sorrise dentro al casco; era esattamente come aveva pensato: il nebulizzatore aveva un problema alle resistenze che favoriva il formarsi delle incrostazioni. I i sistemi automatici guidati dal software non potevano farci niente. Appoggiò le parti smontate sulla neve, prese il liquido dalla tasca, lo versò sul pezzo.

Si guardò attorno in quella solitudine, protetto dal suo scafandro riscaldato. D’improvviso pensò alla Terra, che in quel momento stava dalla parte opposta al Sole, invisibile. Pensò a sua moglie.

Prese il nebulizzatore, lo osservò, ingrandì l’immagine: era tutto in ordine, pulito come nella sala operatoria di un ospedale. Saldò rapidamente i fili delle resistenze danneggiate. Rimontò tutto, si assicurò che le parti non lasciassero spazi di vuoto, avvicinò la microtelecamera, esaminò ciascuna inserzione. Risultava tutto perfetto.

Un guasto banale. Che tutti i tecnici informatici di Cerere non avrebbero mai potuto risolvere: bisognava inginocchiarsi nella neve.

Tom si alzò, guardò il meraviglioso cielo popolato di stelle e si avviò verso il boccaporto della base sotterranea, a cinquecento metri da lì, nel silenzio accompagnato dalle leggere vibrazioni degli apparati dello scafandro.

Le tre basi di Cerere scandivano la giornata in ventiquattro ore, simulando la Terra: in realtà il piccolo pianeta girava su se stesso in nove ore soltanto. Quella sera Webster bevve una birra con Blanca Gomez, maestra di sci di quel mondo sperduto, ma molto amato dai facoltosi turisti. Bevvero, chiacchierarono di cose superficiali. Blanca spiegò le stranezze di alcuni turisti dell’ultima infornata, rise parlando degli incidenti dovuti alla difficoltà di adattamento alla gravitazione di Cerere, descrisse la felicità dei ciccioni che si sentivano liberi come coriandoli. Sulle astronavi che li trasportavano, i turisti godevano di un effetto gravitazionale causato dalla rotazione, che era pari alla metà della gravità terrestre. Su Cerere diventavano ancora più leggeri!

Era piacevole ascoltarla, pensava il maggiore Tom. E forse sarebbe stato possibile imbastire una relazione con lei, una vera storia. Ma il suo cuore, quello più profondo e più caldo, era rimasto sulla Terra, tanti anni prima.

Lasciarono il bar e salirono alla galleria del primo livello, quello che stava appena sotto la superficie, una galleria dalla copertura trasparente, lunga un chilometro, da dove potevi guardare lo spettacolo del firmamento e dell’orizzonte di quel piccolo mondo, con le sue montagne. Se invece era giorno, si ammirava il Sole lontano, una sfera che era soltanto un terzo di quella che si vedeva dalla Terra e, nonostante il Sole, si potevano scorgere le stelle più luminose, e i pianeti, a cominciare da Giove. In quel momento la nebulosa di Orione luccicava chiara sotto la cintura del gigante e Tom e Blanca rimasero a fissarla e Blanca gli prese la mano e disse: – Major Tom, dammi un bacio.

Lui non se l’aspettava. Si voltò e vide le iridi scure brillare e avvicinarsi e fu lei a stampargli un bacio sulla bocca.

E poi rise.

Tom disse: – Tu stai scherzando.

Blanca fece un respiro profondo come se volesse risucchiare tutta l’aria di quel tunnel trasparente. Passarono quindici, venti lunghi secondi. Poi disse: – No, non scherzo, Tom.

L’uomo non commentò. Guardò Betelgeuse e Rigel, brillavano come diamanti.

Anche lui stava bene con lei. Poteva scegliere, continuare a prendere quella piccola dose di tranquillante ormonale che assumeva quando avvertiva il desiderio prendere forza. Oppure lasciarsi andare, libero.

Blanca era una bella ragazza. E una tipa in gamba.

Ma il maggiore Tom non trovò di meglio che stringerle la mano e dire: – Quando guardo la nebulosa di Orione, avverto commozione perché là stanno nascendo stelle fatte della polvere e del gas di stelle di generazioni antiche. Come nonni, padri, figli.

Blanca disse di sì, che era così.

Rimasero mano nella mano, nella galleria trasparente di quel pianetino che era una sfera di mille chilometri di diametro, la lunghezza dell’Italia, forse meno. Si baciarono ancora, poi Tom disse che andava a dormire: raggiunse la sua abitazione da solo.

Non erano case lussuose. Il maggiore aveva una cabina discreta, di sei metri per sei, con letto, doccia: l’acqua non mancava, su Cerere. C’era persino un angolo cottura perché arrivavano anche cibi veri dalla Terra e da Marte e si poteva cucinarli con le piastre a induzione. Avevano librerie infinite e tutti la musica che volevano caricate nella memoria centrale della base del pianetino. Ma Tom si faceva portare anche dei libri cartacei, un paio all’anno: era un lusso che poteva concedersi.

Andò a dormire dopo avere bevuto una bibita.