Il nome fantascienza fa paura in libreria? Ha ancora senso etichettare un romanzo come fantascienza? C'è chi lo fa orgogliosamente e chi invece nega che quell'opera sia di fantascienza… Abbiamo rivolto questi quesiti a Giulia Iannuzzi dell'Università degli Studi di Trieste e autrice dei saggi Fantascienza italiana. Riviste, autori, dibattiti, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta (Mimesis, 2014) e Distopie, viaggi spaziali, allucinazioni. Fantascienza italiana contemporanea (Mimesis, 2015, ebook 2016); a Silvio Sosio, curatore della rivista Robot ed editore di Delos Book e Delos Digital e Francesco Verso, scrittore, vincitore del premio Urania ed editore di Future Fiction.

Sempre più spesso capita che editori italiani non specializzati o scrittori non strettamente legati al mondo della fantascienza pubblichino un romanzo di science fiction, salvo non dichiararlo come tale o addirittura negare che appartenga al genere. È, a tuo avviso, un segnale che la fantascienza è ormai uscita dal ghetto del genere letterario o un prendere le distanze da un tipo di narrativa che in questo momento non ha molto mercato e viene considerata “minore”? 

Giulia Iannuzzi:

Penso che le due spiegazioni non si escludano, che entrambe abbiano una loro validità. Da una parte il repertorio fantascientifico, con la sua capacità di trasporre nell'immaginario e riflettere criticamente sulla centralità della tecno-scienza che caratterizza il nostro mondo, prolifera all'interno di altri generi – sulle pagine, su grandi e piccoli schermi, in giochi e videogiochi, e finanche fuori dalle opere di finzione.

Dall'altra parte, nella “repubblica delle lettere” italiana, l'etichetta di genere è ancora, per molti operatori, sinonimo di una “nicchia” poco blasonata. Le diffidenze critiche che hanno caratterizzato la ricezione della fantascienza negli anni del “boom” economico sono ancora largamente in essere. Ma d'altronde ciò si lega a temi e problemi di più ampia portata (come l'anacronistica abitudine a separare nettamente una letteratura “alta” da una “popolare”, o a considerare scienze e tecniche saperi di seconda categoria).

Un successo della fantascienza de facto, a cui fanno riscontro pregiudizi da parte dell'establishment letterario duri a tramontare.

Silvio Sosio:

Il motivo della scelta è senza dubbio il secondo, ma credo che questo abbia portato in definitiva anche a realizzare il primo. Va anche detto che negli ultimi decenni un po’ tutti i generi hanno subito destini simili, “polverizzandosi” in sottogeneri (o forse più correttamente filoni) via via più specialistici che si alternavano nelle mode. Il giallo è diventato thriller, noir, hard boiled, l’horror ha avuto i figli un po’ bastardi dei vampiri, delle streghe, degli angeli. La fantascienza ha dato vita a cyberpunk, steampunk, distopia young adult, techno-thriller.

Francesco Verso:

Credo che la situazione sia più complessa e legata al fatto che molte tecnologie ed innovazioni degli ultimi anni hanno reso alcuni temi, considerati fantascienza fino a pochi anni fa, di strettissima attualità. Per cui, se da una parte la fantascienza ha vinto perché sta uscendo dal suo ambito più ristretto, dall’altra ha perso in quanto non può più considerare certe tematiche come proprie in via esclusiva. Argomenti come l’ingegneria genetica, l’analisi psico-sociale tramite Big Data, lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale come sostituto dell’uomo, il cambiamento climatico, i nuovi artigiani digitali dalla stampa 3D, la biopolitica e l’evoluzione autodiretta, fanno tutti quanti parte del presente e quindi qualunque autore che voglia rappresentare la realtà quotidiana avrà per forza di cose questi fenomeni come riferimenti ineludibili del suo immaginario.

Cito alcuni romanzi degli ultimi anni, che oltretutto provengono da autori di paesi diversi, per dimostrare come questa tendenza globale non sia una moda editoriale passeggera ma rappresenti un profondo cambiamento paradigmatico che investe gran parte della letteratura contemporanea.

“Zero K” di Don DeLillo (USA), “Satin Island” di Tom McCarthy (UK), “Babylon” di Viktor Pelevin (Russia), “Le possibilità di un’isola” di Michel Houellebecq (Francia), “Stazione 11” di Emily St. John Mandel (Canada), “Non lasciarmi” di Kazuo Hishiguro (Giappone), la trilogia composta da “L’ultimo degli uomini”, “L’anno del diluvio” e “L’altro inizio” di Margaret Atwood (Canada), “L’Atlante delle Nuvole” di David Mitchell (UK), “Il libro delle cose nuove e strane” di Michel Faber (Olanda) e l’elenco potrebbe continuare.

Con un azzardo, potrei dire che siamo usciti dalla letteratura post-moderna e siamo entrati in quella fantascientifica, laddove il concetto di Singolarità, l’incapacità, cioè di prevedere quali tendenze influenzeranno maggiormente il nostro futuro prossimo, si pone alla base della scrittura degli anni a venire.

È una vittoria? Sono ottimista e vedo il bicchiere mezzo pieno.

Ha senso oggi etichettare un romanzo di fantascienza come “fantascienza”? Oppure dovremmo cominciare a chiamare la fantascienza in altro modo? 

Giulia Iannuzzi:

Un'etichetta di “fantascientificità” usata oggi può avere altrettanto senso (o meglio al plurale – altrettanti sensi) di ieri. È un'etichetta funzionale a creare una comunità di pratica attorno a dei testi; ed è un'etichetta negoziabile: ciascuno degli attori coinvolti in questa comunità – autrici e autori, lettrici e lettori, fan, editori, critici, e così via – avrà da offrire una sua interpretazione di questa etichetta, ciascuno vorrà includere o escludere nel genere fantascientifico date opere e autori, per date ragioni. Si tratterà di interpretazioni differenti, talvolta concorrenti o in conflitto tra loro.

Sostituire la parola “fantascienza” con qualche altra parola non cambierebbe questo aspetto pragmatico e convenzionale, che resta insito nell'uso di qualunque etichetta di genere.

Due elementi mi fanno ipotizzare che non vedremo un tramonto dell'etichetta fantascientifica a breve: il primo è che se guardiamo al genere nei suoi aspetti funzionali al mercato – in termini cioè di standardizzazione produttiva e modellizzazione di un orizzonte d'attesa – agli operatori dell'industria culturale credo converrà capitalizzare a oltranza su un'etichetta consolidata. Un'etichetta che tra l'altro ha resistito bene all'emersione di categorie contigue, che si candidavano a eroderne i territori, come slipstream, speculative fiction, weird fiction. Il secondo elemento che mi pare lavori in favore di una lunga vita dell'etichetta “fantascienza” è la parte “scienza” del binomio, che ne fa un magnifico “centauro concettuale” (per riprendere un'espressione di Primo Levi), in grado di coniugare nel proprio essere immaginazione e scienza.

Silvio Sosio:

Ha senso, perché se non c’è l’etichetta come facciamo su Fantascienza.com a

Alastair Reynolds e Silvio Sosio
Alastair Reynolds e Silvio Sosio

sapere che dobbiamo parlarne? È una battuta, ma non del tutto. L’etichetta fantascienza consente alle testate di settore di riconoscere il prodotto e promuoverlo verso il pubblico che si interessa a questo settore. Il punto, probabilmente, è che questo pubblico non è al momento così numeroso, per cui questo vantaggio è molto relativo. Per converso esiste una fetta di pubblico che rifiuta a priori un prodotto etichettato fantascienza (non sempre per motivi di snobismo verso il genere, anzi spesso perché teme che sia troppo difficile). Quindi, la risposta sta nel peso di questi due fenomeni.

Francesco Verso:

Domanda difficilissima. In inglese il termine science fiction denota un legame imprescindibile con la scienza, laddove la radice italiana “fanta” ne stempera la correlazione e apre alla fantasia. E questo – a mio avviso – è all’origine della diffidenza e della perplessità che nutre chiunque non legga per desiderio di evasione e intrattenimento bensì per voglia di scoperta e approfondimento. Ovviamente le due cose possono andare di pari passo, ma secondo me, è questo che suscita il termine fantascienza (nel gergo comune si usa ancora per descrivere qualcosa di assurdo e inconcepibile). Al contrario io ritengo fantascienza qualsiasi testo in cui la plausibilità dell’elemento “estraniante” (che sia sociale, politico, climatico o strettamente tecnologico poco conta) sia molto elevata e dove le idee fantascientifiche non siano date per scontate: tanto più uno scrittore si sforza di rendere logiche e razionali le sue estrapolazioni immaginifiche ricorrendo a meccanismi di verosimiglianza scientifica, tanto più quella storia avrà un sapore futuribile. Qualora ciò non avvenga, si ricade nel campo del fantastico, un genere altrettanto affascinante e fondamentale per la letteratura, che ha sedotto autori come Borges e Calvino, ma certamente diverso per esempio dai racconti fantascientifici di Primo Levi o James G. Ballard. L’etichetta ha quindi senso per i librai oppure per le biblioteche che devono “posizionare” il testo su uno scaffale, anche se ormai le etichette sono sostituite da “nuvole di significato” oppure da “tag” con cui ampliare le categorie e rendere un’opera meno circoscritta a un’unica catalogazione, spesso troppo angusta.

La parola fantascienza richiama alla mente del lettore e spettatore medio tante cose, anche molto diverse fra di loro. Ad esempio, possono finire sullo stesso piano un romanzo di Ballard e l'ultimo film della saga di Star Wars. È normale, a tuo avviso? È il bello della fantascienza? Oppure è un paradosso che va affrontato? E come, a tuo avviso? 

Giulia Iannuzzi:

Se adottiamo del genere una concezione non assiologica, fluida e storicamente intesa, se intendiamo il genere come un repertorio di temi e figure tipiche, o come un “megatesto” composto di opere in dialogo fra loro, credo sia normale per qualunque genere includere opere che esprimono valori (estetici e non solo) diversissimi tra loro. D'altronde i nostri stessi parametri di giudizio sono soggetti a mutamento in una dimensione storica (così, ciò che nei secoli passati è nato talvolta come “popolare”, oggi si trova nei programmi della scuola dell'obbligo, entrato a far parte del “canone”).

Non so se questa natura composita e cangiante del genere sia un paradosso da affrontare in qualche modo; e sicuramente non saprei chi potrebbe essere titolato a ricomporla. Degli attori che oggi negoziano i confini del genere – autori, lettori, editori, critici, ciascuno con il suo orientamento – in quella “discussione senza fine” che è la fantascienza (secondo una bella formulazione di Farah Mendlesohn), ciascuno è mosso da intenti di auto-legittimazione professionale e culturale, o da interessi specifici e passioni, ciascuna, penso, con una sua cittadinanza.

Silvio Sosio:

Dipende dal lettore. Il lettore esperto che conosce il genere sicuramente penserà a Dick e a Ballard, ma il lettore generico molto probabilmente no. Il fatto che le espressioni della fantascienza più note al grande pubblico siano proprio quelle della fantascienza cinematografica spettacolare, come Star Wars o i film di Star Trek (sottolineo: i film) è indubbiamente deleterio per la fantascienza scritta; intanto perché nessun romanzo può replicare l’esperienza spettacolare di un film, e in secondo luogo perché danno un’immagine di fantascienza diversa, basata su avventura e azione, mentre al centro della fantascienza dovrebbe esserci l’idea.

Francesco Verso:

Francesco Verso
Francesco Verso

Come dicevo prima, senza l’elemento razionale e una spiegazione plausibile dei motivi che hanno portato alla presenza di un fattore “fantascientifico” attorno al quale ruota la narrazione, siamo nel campo del fantastico, dove invece tale fattore è solamente supposto, reso metaforico, o dato per scontato (per esempio la Forza in Guerre Stellari, sì ci sono i midi-chlorian, però sono arrivati tardi nella storia e non si capisce che cosa siano).

In breve, se il fantastico è la letteratura dell’impossibile (Gregor Samsa che un giorno si risveglia scarafaggio, Pinocchio nato da un pezzo di legno di Geppetto oppure Harry Potter che lancia incantesimi) la fantascienza è la letteratura del possibile (Frankenstein è realtà grazie ai trapianti d’organi e alle protesi artificiali, come pure la realtà virtuale preconizzata in “Neuromante” di William Gibson e “Snow Crash” di Neal Stephenson.) Tenendo a mente queste distinzioni, forse sarà più facile per lettori e spettatori capire che esperienza stanno vivendo. Io non ci vedo un paradosso, il genere è ampio, vario ed accogliente, anzi si fa ancora più interessante proprio per le sue ibridazioni… del resto nel giallo potrebbero rientrare a pieno titolo opere assolutamente disparate come “Il nome della rosa” di Umberto Eco, “La fabbrica dei corpi” di Patricia Cornwell e le storie di Andrea Camilleri e Carlo Lucarelli.